I  BORBONI  DI  NAPOLI

 

Di Alexandre Dumas

 

Libro I – Capitolo I

 

 

 

Carlo VII di Napoli ‑ Carlo III di Spagna.

 

Carlo VII di Napoli, il quale però non si avvalse mai di questo nome per sottoscrivere gli atti reali, ma contentossi di firmare semplicemente « Carlo » quasi che non avesse voluto riconoscersi come successore dei principi di Angiò e di Spagna che aveano portato il suo nome, era un primogenito, ma un primogenito delle seconde nozze di Filippo V con Elisabetta Farnese.

L'erede della corona era Ferdinando VI, figlio di Filippo V e di Maria di Savoia, sua prima moglie morta nel 1714. Elisabetta Farnese era quella giovine principessa parmense che madama Orsini, la vecchia amica di Filippo, avea fatta sposare al re, nella speranza di poter regnare contemporaneamente sul cuore del Re, e sullo spirito della Regina.

Ma il primo atto della giovine regina, al suo giungere a Madrid. fu di fare arrestare la principessa Orsini e farla condurre in Francia con l'abito di corte ch' ella avea indossato per andarle incontro, il petto scoverto, senza mantello, in una carrozza. di cui una delle sue guardie avea rotto un cristallo col gomito. mentre regnava un freddo di sei gradi.

Poco dopo, toccò ad Alberoni, scosso già dalla non riuscita della cospirazione di Cellamare, ma il di cui vero difetto agli occhi di Elisabetta, si era essersi egli opposto a che la nutrice della regina, Luisa Pescatori che avealo conosciuto suonator di campane a Parma, venisse a raggiungere la sua padrona a Madrid.

Or Luigia Pescatori, malgrado il primo ministro ex sagrestano, era venuta a raggiungere la sua padrona in Ispagna. e mediante un milione ch' ella aveva ricevuto da Dubois primo ministro del reggente, ella aveva talmente minato Alberoni presso la regina e questa presso il re, che un bel mattino il ministro ricevette un biglietto da Filippo V, che l'invitava a lasciar Madrid pria che fossero passate 24 ore, e la Spagna prima di 15 giorni.

Dubois mandò incontro ad Alberoni il signor De Marcieu il quale avevalo conosciuto a Parma.

De Marcieu aveva ordine di far parlare Alberoni, ma questi indovinò lo scopo delle gentilezze che il suo collega faceagli: :

‑ Voi volete sapere da me i segreti della Monarchia spagnola? Vò a dirveli: Filippo V è un re, cui occorrono due cose sole: una moglie ed un inginocchiatojo.

Queste poche parole di Alberoni facevano il ritratto di Filippo V.

Era desso il padre di Carlo III e soprattutto l'avolo di Ferdinando IV.

Essendo necessario di adottare per questi due sovrani il nome sotto il quale la storia ci parla di loro, noi diciamo voler parlare dell'Infante don Carlos divenuto re di Napoli, sotto il nome di Carlo III che egli prese salendo sul trono di Spagna nel 1759 e di Ferdinando IV sotto il nome di Ferdinando I ch'egli prese diventando Re delle due Sicilie nel 1815.

L'ambiziosa Elisabetta Farnese, di cui si può apprezzare il carattere, dalla doppia disgrazia dell'amante e del favorito del re suo marito, sopportava a malincuore la posizione secondaria in cui trovavasi il figlio suo amatissimo, onde ella cominciò ad ottenere per lui, a prezzo di una guerra, i ducati di Parma e di Toscana. Ma ciò non era abbastanza e nella biblioteca dell'Escuriale, vedesi ancora una sua lettera all'Infante, che diggià regnava sui due ducati, così concepita:

« Muovi verso le Sicilie, le quali alzate a governo libero, saran tue, va dunque e vinci, la più bella corona d'Italia t'attende. »

Diciamo come Elisabetta Farnese poteva sperare di fare suo figlio re delle due Sicilie.

La pace di Utrecht, firmata nel 1713 dopo la vittoria di Denain, la quale avea salvato la Francia, avea dato la Sicilia a Vittorio Amedeo duca di Savoia, e fatto cedere Napoli con la Sardegna all'Austria: ma, nel 1720, Vittorio Amedeo, stanco dello spirito irrequieto dei Siculi, cangiò la Sicilia con la Sardegna, e mercè questo cambio ambo le Sicilie trovaronsi sotto la dipendenza di casa d'Austria.

L'anno 1733 vide però nascere la coalizione della Francia, della Spagna e della Sardegna contro l'Austria, a proposito della elezione di Stanislao, annullata dalla influenza Russa ed Austriaca. Il Re Stanislao s'era ritirato in Danzica ove venne ad assediarlo un esercito russo. I cannoni di Danzica misero fuoco all'Europa.

Ogni traccia delle dissensioni che aveano diviso Spagna e Francia sotto il governo del Reggente era scomparsa fra Luigi XV e Filippo V poichè la nascita di due principi, avea messo la casa di Orleans fuori causa, e tolta al nepote di Luigi XIV re al di là de' Pirenei, ogni speranza di riunire le due corone.

D'altronde siccome e Francia e Spagna erano interessate all'abbassamento della casa d'Austria, l'ambizione di Elisabetta Farnese, lo abbiamo già detto, agognava pel figlio la corona delle due Sicilie.

Ecco quale era il piano della campagna. Una armata francese traverserebbe la Lorena ed i tre vescovadi per stringer d'assedio Filisburgo, chiave della Germania. Preso Filisburgo agevol cosa era penetrare nel cuore della Svevia e traversando la Germania, dare aiuto alla Polonia, mentre un altro esercito passerebbe le Alpi, con l'aiuto dei Piemontesi nostri alleati, e marcerebbe sopra Milano, mentre che un corpo di armata Spagnuola sbarcherebbe a Genova ‑ un altro a Napoli, ‑ ed una flotta della medesima nazione dominerebbe i mari di Italia.

I generali, che comandavano le due armate Francesi, erano per quella di Germania il duca di Berrvick Giacomo Fitz.lames figlio naturale di Giacomo II e di Arabella Churchill sorella del duca di Malbourugh, e per l'armata d'Italia il Maresciallo di Willars nipote d'un cancelliere del tribunale di Condrieux. Quest'ultimo lo abbiamo detto diggià avea salvato la Francia alla battaglia di Denain.

Il primo avea salvato la Spagna alla battaglia d'Almanza.

Le truppe Spagnuole erano comandate dal Conte di Montemar.

In questo momento il giovine D. Carlos riceve la lettera di sua madre, e le lettere patenti di Filippo quinto, colle quali questi gli trasmetteva gli antichi dritti della Spagna, ed i suoi più recenti ancora, sul regno delle Due Sicilie.

Per fare onore al giovine principe gli si conferisce il titolo di generale in capo delle armate Spagnuole, ma di fatto il vero generale è Montemar.

Papa Clemente XII s'impegna a segretamente riconoscere il futuro re delle due Sicilie, appena la fortuna gli si mostrerà favorevole.

Don Carlos ha dieciassette anni ‑ l'età medesima che avea Corradino quando reclamò la corona, usurpatagli un momento dallo Zio Manfredi.

Dopo aver traversato Firenze, ed aver visto il vecchio Gran Duca Giovanni Gastone, ultimo di quella gran famiglia dei Medici, che finiva come finiscono tutte le grandi famiglie ‑ dopo aver traversato Siena ed Arezzo, nella fine di Marzo 1734 egli passò in rivista la sua armata a Perugia.

Questa armata componevasi di sedicimila fantaccini e cinquemila cavalieri Spagnuoli, Italiani e Francesi.

Dopo la rivista, per gli Stati della Chiesa, ma senza entrare in Roma, l'armata si diresse alla volta di Napoli, ove era vicerè per l'Austria Giulio Visconti, mentre il conte Traun ne comandava le genti armate.

Questo generale disponeva di venticinque mila uomini presso a poco, compresevi le guarnigioni d'Ischia e di Procida, ch'egli sguarnì non sperando poterle difendere.

Il vicerè affettava una sicurezza che ogni suo atto smentiva ‑ Colui che è veramente forte non ha mestieri d'esser crudele ed ingiusto. Alcuni nobili che aveano parlato nel consiglio, nello interesse dello stato, furono arrestati e spediti in Germania. Napoli messa a contribuzione quasi città nemica ebbe a pagare 150.000 ducati ‑ Ingenti somme depositate dai cittadini, sia nelle banche, sia nelle cancellerie dei Consolati furono prese Gli archivii del regno furono mandati a Gaeta, la viceregina partì con la sua famiglia per Roma, seppesi che il vicerè medesimo faceva in segreto i preparativi della partenza; mentre che giungeva notizia ai Napolitani aver la flotta spagnuola, partita sotto gli ordini dell'ammiraglio Clavigo dai porti di Livorno e Porto ‑ Longone, preso possesso delle isole d'Ischia e di Procida: e mentre che l'avanguardia di D. Carlos per le vie di Valmontone e Frosinone giungeva alle frontiere del Regno di Napoli.

Facevansi inoltre meravigliosi racconti sulla generosità del giovine Duca, dicevasi che il suo tesoro accresciuto da parecchi galeoni giunti d'America, era larga. mente aperto, non solo a pagar le spese che faceva l'armata, ma anche per doni e larghezze ai ricchi ed ai nobili, per elemosine ai poveri; ed aggiungevasi che ogni qualvolta entrava in una città egli versava al popolo, a piene mani, l'oro.

Aggiungete a ciò, il doppio prestigio della giovinezza e della novità, questa grande speranza dei popoli oppressi, gran numero di proclami firmati da Filippo V, e da Don Carlos nei quali il padre a nome del figlio, e il figlio nel suo proprio, dichiaravano aver intrapreso quella conquista a solo scopo di liberare i popoli delle due Sicilie, dal giogo tedesco, tanto pesante nella sua falsa paternità, impegnando entrambi la loro reale parola di abolire le imposizioni poste dall'Imperatore, giurando che gli usi ecclesiastici sarebbero mantenuti, e che sotto nessun pretesto, non potrebbesi stabilire un nuovo tribunale, il che valea dire che l'Inquisizione resterebbe per sempre annientata. Ora l'Inquisizione era la grande, l'eterna paura dei Napolitani. Seppesi poco dopo che le truppe spagnuole aveano passato, senza incontrare ostacoli, la frontiera del Garigliano, eransi fermate un giorno ad Aquino ed erano da 48 ore a san Germano, cioè a venti leghe appena da Napoli.

D'un tratto si seppe che il conte di Traun il quale occupava le fortificazioni di Mignano con 5.000 uomini, girato dal Duca d'Eboli, uno dei generali dell'Infante., che alcuni contadini di Sesto aveano guidato a traverso boschi fino a quel punto creduti impraticabili, vedendosi sul punto d'esser circondato, avea abbandonato il suo campo, inchiodando i cannoni e bruciando i carri, ed erasi rinchiuso a Capua, lasciando libera la via degli Abruzzi per Venafro e Sessa.

Quanto abbiam narrato avea avuto luogo la notte del 30 Marzo.

Il 4 aprile una ben altra notizia si sparse nella città, quella cioè, che nella sera antecedente, il vicerè seguito dalle autorità militari e dalla guardia tedesca, era fuggito traversando i quartieri meno frequentati della città, ed avea preso la via di Avellino.

Napoli era abbandonata e lasciata al suo libero arbitrio, di cui non erano dubbi ali effetti.

Arrivando a Maddaloni l'Infante, il quale avea impiegato sei giorni per far dodici leghe, sia ch'egli temesse qualche sorpresa, sia che contasse sui buoni uffici della Fama, vide andargli incontro gli Eletti di Napoli i quali gliene recavano le chiavi, e lo pregavano, giurandogli fede ed obbedienza di voler mantenere i privilegi della città che attendevalo allegra e piena di speranze nelle promesse sue e in quelle di suo padre.

Già al suo entrare nella città, egli aveva trovato buon numero di gentiluomini accorsi a formargli una guardia di onore.

I deputati di Napoli trovarono il loro futuro sovrano, col fucile in pugno, occupato ad uccidere dei colombi che faceano il loro nido nelle torri del palazzo Ducale.

Era un fiero cacciatore, innanzi a Dio, il Re Carlo III, e noi avremo a narrar di lui alcuni aneddoti cinegetici che non mancheranno di qualche interesse.

Del resto i Borboni sono sempre stati terribili cacciatori: Luigi XVI era a caccia quando il popolo invadeva Versailles il 5 ottobre, Carlo X era a caccia il 26 Luglio, giorno in cui furono firmate le ordinanze, e vedremo Ferdinando I degno figlio di suo padre Carlo III restare a caccia mentre che suo fratello Carlo IV agonizzante lo chiamava inutilmente per ricever il suo ultimo sospiro.

Il Dieci maggio 1734 l'infante Don Carlos fece la sua entrata in Napoli, preceduto dal suo tesoriere, che gettava a piene mani l'oro e l'argento. Egli entrò per la porta Capuana in mezzo a grida frenetiche, come ne mettono i Napolitani all'entrata di ogni nuovo sovrano ‑ e questo entusiasmo si spesso rinnovato, ha fatto nascer la trista massima che :

« Il Regno di Napoli si affitta con ogni felicità » .

Però questo entusiasmo si troverà per un momento sospeso. Volendo il giovine principe rendere grazie a Dio, della felice riuscita della sua impresa, entrò nella chiesa di S. Francesco e vi restò in preghiera fino alle ore quattro dopo mezzodì. Allora soltanto ne uscì, inforcò un cavallo riccamente coverto, e vestito di abiti splendidi, con al petto le decorazioni reali e le croci di famiglia che abbagliano sempre le moltitudini, egli si diresse alla cattedrale, ove giunto toltasi dal collo una ricca collana di rubini e diamanti, la pose a quello di S. Gennaro.

Reso questo omaggio al protettore di Napoli, l'Infante D. Carlos ricevette dal Cardinal Pignatelli la benedizione ecclesiastica.

Il 15 Giugno seguente fu pubblicato un decreto di Filippo V col quale l'antico re delle Due Sicilie cedeva tutti i suoi dritti, insieme a quelli di tutti i re di Spagna suoi predecessori, al figlio D. Carlos.

Il nuovo re facevasi chiamare Carlo per la grazia di Dio, re di Sicilia e di Gerusalemme. Gli altri titoli erano ‑ Infante di Spagna, Duca di Parma, Piacenza e Castro, gran principe ereditario di Toscana.

 Le armi che ricordavano i diritti di nascita, e quelli acquistati, erano in primo luogo il blasone nazionale delle Due Sicilie sul quale egli innestava i tre gigli d'oro della casa di Spagna e di Francia ‑ i sei gigli dei Farnesi e le sei palle dei Medici.

Questa proclamazione fu, ciò che principalmente voleva il giovine principe il quale conosceva lo spirito privato dei Napolitani, un pretesto a nuove feste ‑ uno dei divertimenti, avanzo del medio evo, fu una Cuccagna.

Era questa un immenso teatro, costruito sulla piazza attigua al Palagio carico d'ogni sorta di commestibili e di oggetti d'un certo prezzo, elevato in modo da presentare qualche difficoltà ad impadronirsene. La scena rappresentava il giardino delle Esperidi, con gli alberi dalle frutta d'oro, custodito dal favoloso dragone e contenente molte fontane nelle quali il vino faceva le veci dell'acqua.

Il popolo si precipitò in questo giardino incantato, ma nel momento in cui il teatro era stivato di gente, malamente assicurato sulle sue basi, sprofondò, sfracellando coloro ch'eran di sopra, e schiacciando quelli che trovavansi di sotto. I morti furono circa 80 e si contarono due o trecento feriti.

Il giovine re, che dal suo verone assisteva allo spettacolo, vide la terribile catastrofe e diede ordini onde fossero dati soccorsi ai feriti, e sovvenzioni alle famiglie dei morti; ma l'impressione non fu meno terribile e meno profonda di quel che la domandava la grandezza dell'accidente.

La sera, la piazza era tetra e deserta ‑ alcune sentinelle vegliavano sole presso le rovine del teatro, che non, aveasi ancora avuto tempo di toglier da posto, e l'indomani compariva un decreto del re, col quale vietavasi per l'avvenire la ripetizione di simili feste.

Anche Luigi XVI vide contristate, da un'analoga disgrazia, le feste del suo matrimonio ; e questa disgrazia fu ritenuta come un tristo presagio, il quale avverossi 25 anni dopo.

Per la casa di Napoli, il presagio, se puossi ritener come tale, impiegò maggior tempo a realizzarsi, poichè solamente 126 anni dopo questo solenne ingresso del capo dei Borboni delle due Sicilie, noi vedemmo l'uomo, mandato dalla Provvidenza ad atterrare ciò che i nostri avi avean visto elevare, entrando dalla porta medesima, recarsi, in mezzo d'un entusiasmo eguale, alla medesima chiesa, dove un popolo intero in delirio, ringraziava Dio della caduta dell'ultimo rampollo di quella stirpe, destinata a tanta grandezza ed a tanto avvilimento ; che la fortuna trasportò con Filippo V di Francia in Ispagna e con Don Carlos, di Spagna in Italia.

Il primo atto dell'amministrazione del giovine re fu di nominare a suo ministro di Giustizia, l'uomo il cui nome rimane nella memoria del popolo delle due Sicilie, e nella storia trovasi accanto al suo : Bernardo Tanucci.

Era questi professore di dritto a Pisa, quando Don Carlos vi passò con le sue genti. Un soldato commise un delitto e, per sottrarsi alla pena, rifuggissi in una chiesa invocando il diritto di asilo.

Il Principe però lo fece arrestare, ed il clero Toscano cercò far valere i suoi privilegi e le sue immunità.

La faccenda menò gran rumore, poichè era appunto il tempo in cui la filosofia cominciava ad attaccare questi pretesi diritti del clero. Bernardo Tanucci si fece l'avvocato dell'autorità ducale, e dimostrò altamente l'abuso delle immunità ecclesiastiche. soprattutto in materia criminale.

Carlo, che se non aveva educazione filosofica ne avea almeno gl'istinti, che in quelli tempi cominciavano ad essere uno degli elementi dell'aria che respiravasi, chiamò presso di se il Tanucci, e salito sul trono di Napoli, ne fè il suo ministro di Giustizia.

Siccome il regno di Carlo III, uno dei più felici per altro che i Napolitani possano registrare nei loro annali, non ha ammesso discussione alcuna sugli atti del re, e dei suoi ministri , siccome la storia di quei tempi, tranne Coletta, storico e generale costituzionale, è stata scritta unicamente da adulatori dello assolutismo o del potere, il Re ed i ministri sono stati a parer nostro collocati su d'un piedistallo esagerato che noi procureremo di ridurre alle sue vere proporzioni non per mezzo di opinioni, ma con l'ajuto dei fatti.

La battaglia decisiva di Bitonto avea avuto luogo nello intervallo di tempo, che separò l'entrata di Carlo III dalla sua ascensione al trono. Montemar, quasi senza combattere, ottenne una brillante vittoria, nella quale i Tedeschi ebbero mille, fra morti e feriti, perdettero 23 bandiere, e la maggior parte degli attrezzi e degli effetti da campo. Gli Spagnuoli contarono solo 300 fra morti e feriti.

Premio di quella giornata fu il regno delle due Sicilie, poichè all'annunzio di quella vittoria, tutte le città fortificate e tutte le castella, che parteggiavano ancora per l'Imperatore, si arresero. tranne Brindisi e Lecce. sul mare adriatico la prima, nella terra di Otranto l'altra.

Diciamo di volo che Brindisi è l'antica Brundusium, celebre pel viaggio che Orazio vi fè con Mecenate. nell'intendimento di riconciliare Antonio ed Ottavio.

Il re Carlo ricevette Montemar, al ritorno, che questi fece in Napoli, seduto alla gran tavola di Stato, secondo l'uso della monarchia, e, quantunque tutto fosse noto al re, mercè rapporti particolari, pure fingendo ignorar ogni cosa, col più grazioso sorriso :

Signor di Montemar, dimandogli, quali nuove ne arrecate ?

‑ Sire, i vostri nemici hanno dovuto retrocedere innanzi alle armi di vostra maestà, ognuno onora il valor vostro, tutte le vostre milizie hanno fatto prova di egual coraggio, ma i soldati valloni si sono particolarmente segnalati.

-               Grazie, disse il re. Sul luogo ove si è combattuta la battaglia di Bitonto. sarà innalzata una colonna di marmo, sulla quale saran scolpiti la data, il nome del generale e delle truppe che l'han guadagnata: intanto. signor di Montemar, vi fo Duca. e comandante perpetuo del Castello Nuovo.

Ora se, dopo aver visto l'esercito spagnuolo compiere l'opera sua nelle Due Sicilie, vuolsi vedere l'esercito francese compiere il suo incarico nella Italia centrale ed in Germania, ecco quanto osserveremo.

I due eserciti francesi, quasi al principio della cam pagna, perdono i loro due capi, poichè il Maresciallo di Villars muore della febbre a Torino, ed il Duca di Beruick è fatto in due da una palla all'assedio di Filisburgo.

Questi due vecchi generali portan con loro nel sepolcro la vecchia teoria che le nuove tattiche vanno a sostituire.

La morte di Villars e di Berwik, fè luogo all'innalzamento del cavalier Folard e del maresciallo di Sassonia. Alla morte di Berwick il comando dell'esercito di Germania passa nelle mani dei duchi di Asfeld e di Noailles: ed a quella di Villars il comando dell'esercito d'Italia cadde nelle mani di Broglie e di Coigny.

Dopo trenta giorni di trincea aperta, Filisbur‑o veniva preso sotto gli occhi del principe Eugenio. In Italia gl'imperiali, che anno retroceduto fino a Parma, si sono concentrati sotto gli ordini del conte di Merev, ed hanno ripreso l'offensiva.

Colà attaccano, con un ordine ammirabile, stretti in colonne ed in gran massa. I reggimenti di Berry e d'Alvergnia che sono stati i primi a sostenere l'urto dei Tedeschi, han piegato, e dalla ritirata son passati alla sconfitta.

In quel momento una palla perduta uccide il generale in capo degli Austriaci, Conte di Mercy, il quale marciava alla testa dell'esercito imperiale.

Alla vista della caduta, al rumore che annunzia quella morte alle schiere, le file imperiali esitano e si fermano. Senza conoscere ancora la causa di questa esitazione, il signor di Coigny ne profitta, ordina una carica per reggimenti formati in colonna, secondo il sistema del cavalier di Folard. GI'Imperiali da assalitori divengono assaliti. il loro centro è rotto ed essi fuggono lasciando 8000 uomini sul campo di battaglia.

Luigi XV sa, a quindici giorni d'intervallo, la presa di Filisburgo, la vittoria di Parma, e, quasi nel tempo medesimo, l'entrata dell'Infante Don Carlos in Napoli ed il suo innalzamento al trono delle due Sicilie.

Ma, perchè Carlo III fosse veramente re delle due Sicilie, era d'uopo conquistar la Sicilia, ove era vicerè per l'Imperatore il Marchese Rubbi.

I forti e la città di Messina eran comandati dal Principe Lobkowicth , il romano Orsini difendeva la fortezza di Siracusa, ed il Generale Carrera quella di Trapani.

I Siciliani intanto non si erano pronunciati per gli spagnuoli, ma il loro odio per gli austriaci, facea credere che Carlo III potesse contare sulla loro simpatia.

14000 soldati, muniti d'una numerosa artiglieria, eran messi sotto gli ordini di Montemar, il quale avea per suoi Luogotenenti il Marsillac ed il Marchese di Graziareale.

Una squadra dovea sostenere l'esercito di terra, che essa trasportava direttamente, lasciando Montemar a Palermo con una parte di soldati, Marsillac col resto a Messina.

Il 23 Agosto 1734 la flotta uscì dai porti di Napoli e di Baja, separandosi, a mezza strada, perchè Montemar e Marsillac potessero recarsi ciascun alla propria destinazione.

Montemar non ebbe che a mostrarsi nelle acque di Palermo: il vicerè Rubbi s'imbarcò per Malta, abbandonando la città, senza tentarne nemmanco la difesa.

A Messina successe, presso a poco, altrettanto.

Siracusa solamente resistette per un certo tempo ma una bomba caduta nella camera da pranzo ove trovatasi il Marchese Orsini fece sì, che questi facesse voto di render la fortezza se la bomba non gli recava nocumento. Il proiettile non iscoppiò, il Marchese Orsini adempì al suo voto.

In questo modo la conquista dei due regni era completata nel Luglio 1735.

Il re non prendeva, come si è visto, nessuna parte attiva alla guerra, ma tenevasi sempre pronto a profittare del successo delle sue armi, di modo che ben prima che l'intera Sicilia fosse conquistata, Messina e Siracusa almeno, egli partì per Scilla ove il principe Ruffo lo attendeva.

Egli impiegò due mesi a traversar la Puglia, la Basilicata e le due Calabrie, fermandosi ogni giorno per andare a caccia in quei paesi ove il grosso selvaggiume abbondava.

Un giorno, che era intento al suo passatempo favorito. fu sorpreso da una di quelle pioggie, come ne cadono in Calabria, e cercò un rifugio in una povera capanna, ove trovò una donna che era, da pochi momenti, sgravata.

Era questa una di quelle avventure che i re desiderano incontrare, e che Errico IV cercava; solamente Carlo III, più generoso di quel ch'erasi mostrato Errico IV in una consimile occasione. non solo volle essere il padrino del fanciullo, cosa che Enrico avrebbe volentieri fatto, ma diede dippiù cento dobloni di oro alla madre, e costituì una rendita di 25 ducati mensili al fanciullo, percepibile fino all'età di sette anni.

Colletta che narra questo aneddoto, è dolente che. vista la natura del fatto, l'autore, che primo ne ha parlato, non abbia fatto menzione nè del nome della madre. nè di quello del figlio, nè della conseguenza ch'ebbe questo avvenimento.

Il re giunse finalmente a Scilla, ove il Principe Ruffo attendevalo, sul suo scoglio virgiliano, e nel suo dominio feudale, e quando egli imbarcossi sulla costa di Palmi, sopra una di quelle navi, come ne dipinge Rubens, quando egli conduce una fidanzata al suo sposo, e od un re al suo popolo, il Principe Ruffo che, facendogli corteo splendidissimo di barche dorate, sulle quali eranvi le più belle donne di Messina, città che vanta le più belle donne di Sicilia, lo accompagnò al di là dello stretto, con cori festosi, ed al suono dei liuti, come in una di quelle feste antiche, nelle quali Atene celebrava il ritorno di Temistocle o d'Alcibiade.

Egli restò due mesi a Messina fra le feste ed i trionfi , partì quindi per Palermo, ove entrò il 31 Maggio.

I tre ordini del Parlamento, che venivano chiamati i tre bracci della Nazione ‑ il militare ‑ l'ecclesiastico ‑ ed il demaniale ‑ lo attendevano nella Cattedrale, con tutti gli uomini eminenti per fortuna e per intelligenza che la città contava.

Il re vi ascoltò la messa, e compiuto piamente questo dovere religioso, salì sul trono, rimasto vuoto durante il divino servizio, stese la mano sul libro dei Vangeli e giurò ad alta voce di mantenere i diritti del popolo, le prerogative dei Parlamenti, ed i privilegi particolari della città. Dopo questo giuramento, gli assistenti giu‑ rarono fedeltà al nuovo Re.

Il patto tra il nuovo principe ed il suo popolo fu san. cito, in questo modo fra la ‑solennità della Chiesa, le pompe ecclesiastiche, ed in presenza del Signore.

Diciamo subito, a gloria del Popolo e del Re che d'ambo le parti, nei 24 anni, che durò il regno di Carlo III, esso non fu infranto ‑ le rivoluzioni e gli spergiuri toccarono ai regni dei suoi successori.

Diciotto re avevano preceduto Carlo III sul trono di Sicilia, ma giammai il fasto delle loro incoronazioni potè registrare feste, che potessero essere paragonate a quelle che diede il nuovo monarca. La sua corona pesava 19 once, e cinque di esse eran brillanti. ‑ Il suo costo fu quasi di sei milioni.

Oltre a ciò, per le liberalità destinate a questa cerimonia, eransi fatte coniare delle onze d'oro, e delle mezze monete di argento di cui il motto era: Fausto Coronationis anno, cioè: pel felice anno della incoronazione.

Nel corso della sola giornata del 3 Giugno 1735, vuole la tradizione, che i tesorieri del re, ne gittarono al popolo pel valore di più di mezzo milione.

Il 5 Giugno il giovine re lasciò Palermo ed imbarcossi per Napoli sopra uno di quei bastimenti simili a quelli che descrive la favolosa penna di Plutarco. Una squadra intera seguiva il vascello reale, il quale giunse a Napoli il 12 Giugno, senza che i venti fossero stati un istante solo contrari, senza che il menomo accidente avesse rattristato il viaggio.

Durante questo tempo, compievansi le ultime fasi della guerra, di cui la conquista di Napoli era un semplice episodio.

Gli Spagnuoli han fatto la loro unione coi Francesi ed i Piemontesi : gl'Imperiali sono quasi del tutto scacciati dall'Italia: le armate alleate occupano quasi interamente l'alto ed il basso Mantovano, e Mantova sola resta all'Imperatore.

In Germania noi siamo alle porte di Magonza e quantunque il principe Eugenio sia accampato fra Heidelberga e Brucksall noi foraggiamo in tutto il Palatinato.

In quel punto l'Inghilterra si commuove.

La casa di Spagna padrona di Napoli e della Sicilia, le armate Francesi sul Po e sul Reno danno ombra ai Wighs.

L'Olanda dal canto suo non è tranquilla. I Francesi padroni di Filisburgo dominano il Belgio e non han che a stender la mano per toccar l'Olanda, e questa nazione non ha dimenticato Luigi XIV.

La Prussia comincia a mormorare. Nei nostri giorni noi l'abbiamo vista fare altrettanto, ed a quell'epoca essa non avea avuto ancora il gran Federigo, il quale sale sul trono cinque anni dopo soltanto. Non è essa, a quel che pretende, la custode delle libertà germaniche?

Le tre potenze intervengono ed offrono la loro mediazione tra la Spagna, la Francia e la Savoja da una parte, e l'Impero dall'altra.

Le negoziazioni incominciano, ed il 3 Ottobre 1735 le condizioni seguenti trovansi stabilite.

E’ Il re Stanislao abdicherà la corona di Polonia, di cui però sarà riconosciuto re, conservandone i titoli e gli onori. Gli verrà dato immediatamente il Ducato di Bar, ed appena il gran Ducato di Toscana apparterrà alla casa di Lorena, egli avrassi la Lorena; quindi i due ducati di Lorena e di Bar saranno riuniti alla Francia alla morte del re Stanislao.

A queste condizioni, il re Augusto è riconosciuto come sovrano di Polonia e Gran Duca di Lituania.

2.° Il gran Ducato di Toscana apparterrà alla casa di Lorena dopo la morte dell'attuale possessore ‑ tutte le potenze gliene garentiscono il possesso eventuale, e nell'aspettativa di questo avvenimento, la Francia le terrà conto dei redditi della Lorena.

3.° I regni di Napoli e di Sicilia resteranno a D. Carlos che ne sarà riconosciuto re.

4.° Tutti gli altri stati staccati che l'Imperatore possedeva gli saranno restituiti; i Ducati di Parma e di Piacenza gli saranno ceduti, le conquiste fatte in Germania dalle Armi Francesi gli saranno rese.

5.° Il re garentirà all'Imperatore la prammatica sanzione del 1713.

6.° Finalmente saranno nominati commissari d'ambo le parti per regolare le frontiere dell'Alsazia e dei Paesi Bassi.

Come si vede l'articolo terzo di questo trattato assicurava il trono all'infante D. Carlos.

Questo trattato fu chiamato « Trattato di Vienna ».

Noi scrivevamo nel 1850 a proposito di questo trattato nella nostra storia della reggenza e di Luigi XV pagina 203, verso 25 e seguenti.

» L da osservarsi che i rimpasti Europei frutti di questo trattato sono ancora in vigore ai giorni nostri. malgrado le scosse che l'Europa ha provato da un secolo a questa parte.

» Così la Francia è ancora oggi con l'Alsazia conquistata da Luigi XIV, e la Lorena aggiunta da Luigi XV col Ducato di Bar, la Francia della casa dei Borboni e non quella della Repubblica e di Napoleone!

» Il regno di Napoli e di Sicilia conquistato dal ramo secondogenito dei Borboni di Spagna è ancora in mano del re Ferdinando, erede di quel ramo secondogenito.

» Malgrado la rivoluzione democratica di Firenze, il gran Duca di Toscana, rappresentante della casa di Lorena, rientra nei suoi stati.

» Finalmente i ducati di Parma e di Piacenza non sono usciti dalla casa dell'Imperatore d'Austria, se non a causa della morte della gran Duchessa Maria Luigia.

» E' vero, aggiungevamo, che noi vedremo, pria che passino dieci anni, la fine di tutte queste potenze peninsulari di cui noi non abbiam visto il principio.

Nessuna profezia storica si è più esattamente compiuta, e s'essa fosse stata emessa da un uomo di stato, invece di essere azzardata da un poeta, avrebbe bastato a formargli una riputazione europea di previdenza e di lucidità.

 

 

 

 

 

 

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