I  BORBONI  DI  NAPOLI

 

Di Alexandre Dumas

 

Libro I – Capitolo III

 

 

Carlo VII di Napoli ‑ Carlo III di Spagna.

 

Mentre compievasi questo avvenimento, Carlo III, allora in età di 19 anni, sposò la principessa Amalia Valburgo figlia di quel medesimo re Augusto di Polonia. ch'era stato cagione di quella guerra, mercè la quale Carlo era divenuto re delle Due Sicilie.

Colletta dice che il re Carlo era di un aspetto piacevole, ma noi crediamo che su questo punto l'illustre storico, pel quale noi professiamo il maggior rispetto, è in errore, e prenderemo per giudice per ciò, il conte di Glaichen, che avea avuto occasione, in tre viaggi fatti a Madrid ed a Napoli, di conoscere personalmente il re Carlo III e che ha lasciato delle memorie curiosissime.

Ecco il ritratto che egli ne fa.

« Carlo III era brutto dalla testa ai piedi ‑ voi vedete che egli è chiaro ‑ però non avea difformità corporale, onde era agevole abituarsi alla sua bruttezza, poichè la benevolenza sua, ed i modi semplici e naturali che davangli maggior risalto, supplivano alla mancanza di fisiche bellezze. Questa bruttezza mi ricorda un motto, che io trovo tanto più spiritoso, in quanto che fu profferito da un uomo di pochissimo spirito, il quale considerava attentamente il ritratto di Carlo II, che un giorno a Ferney io faceva circolare alla tavola di Voltaire. Io era in sul raccontare come questo principe, ch'erasi mostrato una volta tanto geloso della sua autorità, avesse, per amor della pace domestica, spinto la bonarietà fino ad abbandonare le redini dello stato a sua moglie, col rischio di essere creduto imbecille.

‑ Era dessa dunque ben cattiva? domandò Voltaire.

‑ Un pochino.

‑ Per quanto cattiva ella fosse, cosa avrebbe potuto fare ?

‑ Avrebbe potuto, io dissi ridendo, svisarlo.

Allora il nostro uomo, che non avea ancora pronunciato una sola parola, e che guardava il ritratto esclamò :

In fede mia, gli avrebbe reso un segnalato servigio.

Ecco dunque il ritratto di Carlo III fatto da un uomo che lo ha conosciuto, che ha vissuto nella sua intimità e che gli è costantemente più benevolo che ostile.

Noi però dubitiamo che il pittore abbia abbellito quello che fu mandato, secondo ogni probabilità, alla sua fidanzata Maria Amalia Valburgo.

Noi dubitiamo pure, ch'egli siasi presentato a lei nel suo solito abbigliamento.

Il modo abituale di vestirsi di Carlo III non era quello sotto il quale noi abbiam detto essersi egli presentato al buon popolo di Napoli, quando egli entrò nella città e diede una collana di diamanti e di rubini a S. Gennaro.

No: il suo abbigliamento ordinario, se dessi credere sempre il barone di Glaichen, era tutto campagnuolo.

Egli indossava calzoni di pelle, calze di lana, avea sempre le tasche talmente ripiene di ogni sorta di cose che sarebbersi dette due bisacce, ciò che unito al suo codino fatto a guisa di ravanello, davagli un aspetto più originale che imponente ‑ Del resto poco brillante nella conversazione quantunque non fosse istruito non poteva darglisi la taccia d'ignorante; era insomma ciò che chiamasi un uomo sensato, rivolgendo, alle persone ch'egli interrogava circa l'età, la condizione e la patria loro, interrogazioni piene di tatto e di convenienza.

Carlo III avea una passione che dominava tutte le altre, la caccia, lo abbiam già detto, passione di famiglia dei Borboni, che induriva il suo cuore, e che oscurava il suo spirito.

Egli avea destinato l'isola di Procida ad essere il suo vivaio di fagiani, e colà egli faceva i suoi allievi. che così trasportava poi nei castelli reali, ch'egli voleva ripopolare di selvaggiume.

Or siccome i gatti erano i nemici naturali dei fagiani grossi o piccoli, egli ordinò l'estirpazione della razza felina in tutta l'isola di Procida.

Buffon, che non saremo accusati di citar troppo spesso, sopratutto quando si tratta di storia naturale ha detto : Il gatto è un animale nocivo fatto per distruggere altri più nocivi ancora. Or questa massima di Buffon si trovò giustificata dall'avvenimento. I gatti non essendo più là per distruggere i sorci ed i topi, questi pullulavano e divennero audaci tanto, che un bambino nella culla fu divorato da essi.

Questo fatto che avea diggià contribuito ad esasperare gli abitanti di Procida, coincise con un altro che non era tale da calmarli. Un uomo il quale malgrado lo editto del re, avea conservato il suo gatto, sia per affezione a quello, sia per odio ai sorci, fu denunciato. imprigionato, convinto e condannato alla frusta per mano del carnefice; fu fatto andare per l'isola col suo gatto appeso al collo e venne mandato poscia alla galera[*1] . 

A questa crudeltà, che rassomigliava a demenza, gli abitanti di Procida furiosi presero le armi, e riuniti in corpo dichiararono che, se l'editto non fosse revocato, essi andrebbero a chiedere asilo alle potenze barbaresche, meno crudeli secondo loro, d'un re, che lasciava mangiare i loro figli dai topi, piuttosto che correre il rischio di veder mangiato dai gatti uno dei suoi fagiani.

Rendiamo giustizia al Re di dire che capì quanto era tirannico questo decreto, e che l'annullò immediatamente.

Ritorniamo al matrimonio del re dal quale ci ha allontanati il ritratto fisico e morale che abbiam voluto fare di lui.

La giovine principessa, sul carattere della quale tacquero tutti gli storici napolitani, obbligati a lodare o a serbare il silenzio, era, a quanto essi ne dicono, modesta ed affabile. Colletta medesimo la dice modesta, di puri costumi ed oltremodo religiosa.

I nostri storici però non dividono questa opinione e la dipingono invece imperiosa ed avara.

Forse in quell'epoca era essa troppo giovine, poichè compiva appena il suo quindicesimo anno, perchè il suo carattere potesse essere ben formato ‑‑ Il re le andò incontro, ed i due fidanzati incontraronsi a Portella, limi. te degli Stati romani, sotto un magnifico padiglione, costruito espressamente per quel primo incontro coniugale,

Nello scorger il suo sposo, la principessa fè mostra di porre a terra un ginocchio, ma egli non lo permise e si affrettò di stringersela al cuore chiamandola sua sposa e sua regina.

Il 2 luglio entrarono solennemente in Napoli, e quel medesimo giorno il re istituì l'ordine di San Gennaro con la divisa In Sanguine foedus.

Noi abbiamo detto che Clemente XII avea rimandato a più tardi le pretensioni di re Carlo, circa le immunità ecclesiastiche, ma il re, che come lo abbiamo accennato era molto testardo, appena ammogliato, rimise in campo la faccenda.

Clemente XII levossi dimpaccio col morire, lasciando la cura di regolar la quistione al suo successore Lambertini uomo affabile, tollerante, moderato, pieno di saviezza e di filosofia : carattere senza macchia, spirito piacevole, papa detestabile. Il sovrano pontefice, che accettava la dedica del Maometto di Voltaire, era disposto a tutte le concessioni ‑ Peraltro operavasi nel mondo intero un movimento d'innovazione filosofica, di cui Ferney era il punto di partenza, e di cui tosto dovea diventare il centro.

Ancor venti anni, e re ed imperatori prenderebbero la parola d'ordine presso l'autore del dizionario filosofico, di Bruto e di Candido. L'Arbitrio domandava de' piani alla libertà. Il gran Federigo dovea cominciare la serie degli editti coronati, trascinandosi dietro Leopoldo, Giuseppe 2° e Caterina di Russia.

Il 2 giugno 1741 gli articoli del concordato furono fissati.

La Chiesa godeva di tre specie di immunità.

Le immunità reali.  

Le immunità locali. Le immunità personali.

Spieghiamo cosa erano queste tre specie d'immunità.

Le immunità reali esentavano dalle contribuzioni le proprietà della Chiesa.

Le immunità locali erano sul genere di quelle già combattute da Tanucci in Toscana.

Le immunità personali estendevansi agli ufficiali inferiori delle giurisdizioni ecclesiastiche, ai percettori delle decime, ai servitori, e fino alle amiche dei preti.

Ora come introdurre imposte, quando la parte più ricca della nazione non eravi assoggettata?

Come rendere giustizia quando un omicida o un ladro poteva trovare asilo nel primo convento, nella prima cappella, nel primo giardino di monastero che incontrava? Quando le case dei curati, le botteghe attigue alle Chiesa, e fino i forni che vi comunicano mediante un muro, sono inviolabili, e reclamano il loro diritto, unitamente al reo che ricoverano?

Come infine avere un peso ed una misura medesima,

quando, nei più piccoli villaggi, un terzo della popolazione, dipendente dal clero, reclamava per sé, le immunità istesse ?

La corte di Roma senza cedere del tutto sui tre punti, fece, su ciascuno di essi, alcune concessioni.

Per quel che riguarda le immunità reali, si convenne che le proprietà della Chiesa esistenti all'epoca della firma del concordato, e tutti i nuovi acquisti sopporterebbero la metà dei pesi comuni.

Per le immunità locali si convenne che il diritto di asilo si limiterebbe alle sole chiese, e per un piccolo numero di delitti poco importanti.

E per le immunità personali fu stabilito che la giurisdizione episcopale sarebbe ristretta di molto, mentre invece la giurisdizione secolare verrebbe allargata.

In oltre un tribunale composto, metà di giudici laici, e metà di giudici ecclesiastici, pronuncierebbe sulle contestazioni che il concordato solleverebbe di certo.

Circa le altre quistioni, si convenne di comune accordo non essere venuto ancora il tempo di parlarne.

Questa dovea rimanere a cura de' papi futuri. Sarebbesi detto che i negoziatori napolitani prevedevano le nomine di Rezzonico e di Ganganelli.

Del  resto bisogna render questa giustizia a Carlo III, egli usò in tutta la loro estensione dei diritti accordati­ gli dal concordato.

Le ordinazioni furono ristrette a dieci per ogni migliaio di abitanti, ciò che in uno stato di cinque milioni di anime, dava già il totale abbastanza ragionevole di 500.000.

Le bolle del Papa non riconosciute dal re furono ritenute come nulle.

Proibizione fu fatta al clero di acquistare nuove proprietà.

Ordine fu dato ai giudici di far guadagnare ai preti solo quelle liti, nelle quali avessero doppiamente ragione.

Ogni scandalo ecclesiastico fu represso, ogni licenza monacale punita.

Due superiori di ordini, essendosi opposti al giudice, in una quistione del dritto d'asilo, il colpevole fu strappato dal luogo ove trovavasi, ed i religiosi discacciati dalle provincie.

Una chiesa essendo stata innalzata. malgrado la legge, la quale decretava, non potersene fondare senza autorizzazione reale, fu demolita.

Finalmente fu vietato ai Gesuiti di aprir nuovi collegi e con ciò si preparava il loro bando.

Tutte queste misure diedero una grande popolarità fra i suoi contemporanei a Carlo III, e protessero la sua memoria contro un giudizio troppo severo della posterità.

In quel mentre scoppiò una guerra che sembrò volesse togliere a Carlo III il trono, colla medesima rapidità con la quale un'altra guerra avevaglielo dato.

Non si sarà dimenticato che per l'articolo 5.° del trattato di Vienna il re di Francia garentiva allo imperatore la Prammatica sanzione del 1713.

Molti storici adoperano certe parole consacrate sia dall'uso, sia dalla diplomazia, senza mai darne la spiegazione al lettore, di modo che essi gli presentano un senso vago e dubbioso senza contorni fissi.

Diciamo in poche parole, cosa erano le prammatiche sanzioni, in generale, e quella del 1713 in particolare.

Il nome di Prammatica sanzione in generale era dato alle ordinanze dei re di Francia ed alle risoluzioni della dieta dell'impero durante i secoli XII, XIII, XIV e XV.

Questo nome è storicamente rimasto a quattro di queste grandi ordinanze, o solamente risoluzioni.

La prammatica sanzione di S. Luigi nel 1269.

La prammatica sanzione di Carlo VII nel 1438.

La prammatica sanzione dell'Imperatore Carlo VI nel 1713.

La prammatica sanzione di Carlo III nel 1767.

E' inutile ricordare di che cosa trattavano le due prime, poichè esse non hanno nessun rapporto con i fatti che noi raccontiamo.


L'ultima, quella del 1767, concerneva l'espulsione dei Gesuiti dalla Spagna.

Finalmente quello che si occupa particolarmente, e che dà luogo alla guerra, di cui la battaglia di Velletri sarà uno episodio importantissimo, vale a dire la prammatica sanzione del 1713 è quella, mercè la quale l'Imperatore di Austria Carlo VI dichiarava sua figlia primogenita erede dei suoi stati e glieli faceva garantire dalle potenze straniere.

Ora essendo morto senza eredi il vecchio Giovanni Gastone dei Medici gran duca di Toscana, Filippo V re di Spagna e Carlo III di Napoli reclamarono i loro diritti al trono di Toscana.

La vertenza tra il padre ed il figlio non avea nulla di seriamente pericoloso, quantunque fosse animata da Elisabetta Farnese, la quale dopo aver dato un trono al suo primo figlio, volle darne un altro al suo secondogenito D. Filippo.

Ma nel 1740 l'imperatore Carlo VI, morì anch'egli, e la faccenda divenne più seria. poichè  presentavasi un terzo pretendente. Era questo Maria Teresa d'Austria la quale in nome della prammatica sanzione reclamava gli stati del padre suo, e particolarmente la Toscana, ceduta alla casa di Lorena, come facente parte di quei stati.

Maria Teresa avea ragione, ma in politica, ragione non sempre vale diritto.

Una lega formossi contro l'Austria composta della Francia, della Spagna, della Baviera, della Sardegna, delle Due Sicilie, e della Prussia.

Gl'interessi della Spagna erano di portar la guerra nella Italia centrale, affin d'impadronirsi della Lombardia, e porre la corona di ferro sul capo dell'infante D. Filippo.

Carlo III, prevenuto da tre anni, di questo conflitto, reso probabile dalla vicina morte dell'Imperatore Carlo VI aveva fatto grandi preparativi, ed avea mandato rinforzo alla sua armata comandata dal Duca di Castropignano, ed all'esercito Spagnuolo sotto gli ordini del Duca di Montemar.

Ecco le prime operazioni della guerra.

Le truppe tedesche riunite in Lombardia e comandate dal vecchio nemico della Spagna, il conte Hobkowilz, aveano progredito mentre gli Spagnuoli erano fermati a Castelfranco, di modo che Hobkowilz erasi impadronito di Modena, e per conseguenza di tutto il ducato, poichè il duca di Modena erasi dichiarato alleato della Spagna.

Ma d'un tratto l'Austria si ebbe un alleato, al quale niuno pensava ‑ l'Inghilterra.

Questa nazione già inquieta, come abbiamo detto, fin dal 1735 a causa dei progressi della Francia e della Spagna in Germania ed in Italia, avea a cuore di far rispettare il trattato di Vienna, non per rispetto al buon diritto, ma per difesa dei suoi interessi.

Così, mentre Carlo III ignorava ancora aver l'Inghilterra preso partito per l'Austria, senza denunzia veruna di ostilità, videsi comparire nel golfo di Napoli una squadra di sei vascelli da guerra, di un brulotto e di tre galeotte a bomba, portante bandiera inglese e comandata dal Comodoro Martin.

Questi sbarcò un semplice ufficiale, incaricato di dire al primo ministro di Carlo III, che fossegli dato vedere, che la Gran Bretagna alleata dell'Austria e nemica della Spagna significasse al re Carlo III ch'egli avesse a dichiararsi neutrale nella guerra, di cui l'Italia era il teatro, ed a richiamare immediatamente i soldati napolitani che facean parte delle genti del Duca di Montemar, a meno che non volesse disporsi alla guerra, attesocchè il bombardamento di Napoli in caso di rifiuto, comincerebbe fra due ore.

E questo ufficiale cavò un oriuolo dal suo taschino, facendo osservare che erano le undici del mattino, quindi ad un'ora dovea cominciare il bimbardamento.

Un simile caso non puossi giudicare in due modi.

Ecco il giudizio del Conte Gregorio Orloff che ha scritto una Storia di Napoli ‑ Noi lo citiamo perchè è quello di uno straniero completamente disinteressato nella cosa.

« S'è paragonato. ma, secondo noi, senza ragione il Commodoro Martin, deponendo l'oriuolo sopra una tavola, e contando i minuti accordati al re di Napoli, a Possilio, tracciando un cerchio intorno al re Antioco imponendogli di accettare la pace o la guerra ‑ Qui trattasi di un ambasciadore, il quale forte del suo solo titolo, dimandava niente altro che una risposta, chiara e franca, mentre lì è un brigante che, sicuro della sua forza, insulta la vittima.

Bisognò cedere. Immediatamente si scrisse al conte di Castromignano, imponendogli di ricondurre i Napolitani nell'interno del regno ‑ Il Commodoro inglese prese contezza delle lettere pria che fossero spedite.

Il giorno in cui la neutralità fu firmata, la squadra inglese mise alla vela e scomparve.

Ma mentre che le lettere pubbliche erano state scritte al Conte di Castromignano, altre segrete erano state dirette al Duca di Montemar, onde egli facesse conoscere alle corti di Spagna e di Francia la violenza fatta al re Carlo 3.°

Questi, da canto suo, occupavasi, un po' tardi, è vero, di metter Napoli in istato di difesa. Fortificò il porto, alzò trincee, stabilì batterie lungo il golfo, e guarnì di soldati le torri.

Carlo III pensava con ragione non potere a lungo durare la sua neutralità, e che un giorno o l'altro egli sarebbe costretto dalla natura degli avvenimenti di ricominciar le ostilità : in fatti in seguito di diversi combattimenti, che avevano avuto luogo nell'Italia centrale, le due armate Austriaca e Spagnola eransi avvicinate al territorio napolitano. Allora, per quanto di natura poco guerriera, si ricordò d'essere discendente di San Luigi, d'Errico IV, e di Luigi XIV, si ricordò che suo padre aveagli messo al fianco una spada d'oro arricchita di preziose pietre, quando erasi da lui congedato. dicendogli: ecco la spada che l'avolo mio Luigi XIV m'à messo nel pugno destro il giorno che mandommi a conquistare il trono di Spagna : possa essa esserti utile quanto a me, senza i lunghi travagli della guerra ch'io ho dovuto sostenere _ Egli trasse dalla guaina quella spada, e contro il parere dei suoi ministri, dopo aver mandato a Gaeta la giovine regina, col figlio ch'ella aveagli partorito, egli partì da Napoli, e recossi negli Abruzzi ove prese il comando dei suoi soldati.

Ma siccome, senza essere scrupoloso, era egli onesto uomo, non volle rompere la neutralità, malgrado il modo col quale eragli stata imposta, senza darne prevenzione. All'uopo pubblicò il seguente proclama.

« La neutralità promessa all'Inghilterra era contraria agli interessi della mia casa, alle mie affezioni di famiglia, al bene del mio popolo, ai miei doveri, ed alla mia dignità reale. lo mi vi impegnai a solo fine di evitare alla mia buona città di Napoli, sorpresa senza difesa, il bombardamento e le disgrazie di cui minacciavala una flotta Inglese, comparsa improvvisamente nel golfo e nel porto in attitudine ostile. Però, per quanto poco fosse valida questa promessa e benchè strappata dalla violenza, da re fedele alla data parola io l'ho mantenuta. lo ho richiamato i miei soldati che combattevano sul Po. Le armate del padre mio indebolite da questo richiamo, han corso gravi pericoli: io ho chiuso i porti del regno alle navi spagnuole, ho ricusato soccorsi alla Spagna, ho proibito ogni relazione con essa, mentre tutto io permetteva al vessillo Inglese, ma per tenermi conto di tante e sì dolorosi sacrifici, per ricompensarmi della mia fedeltà, una poderosa armata Austriaca secondata da navi inglesi sta per valicare il Tronto e portar la guerra nel regno di Napoli, sotto il pretesto d'inseguire pochi soldati spagnuoli, ma col proponimento di scacciarne il re. se essa ottiene la vittoria. La neutralità è dunque rotta dai miei nemici ed io vado a render vani questi iniqui progetti, fiducioso nella forza dei miei regni, nella giustizia della mia causa, e nell'aiuto celeste ».

Ciò che vi è di rimarchevole nel documento, che noi togliamo al Colletta, e che noi citiamo per disteso, appunto per ciò, si è il carattere di lealtà di cui esso è, pieno ; ed infatti Carlo III era onesto uomo in tutto il senso della parola. Quando, tornato a Madrid, una guerra era sul punto di scoppiare fra la Spagna e l'Inghilterra, nell'occasione delle Isole Kackland, egli avea torto e quando per scongiurar la guerra, bisognò smentire gli ordini ch'ei medesimo avea dati, il consiglio dei ministri, il quale insisteva vivamente affine ch'egli dasse questa soddisfazione all'Inghilterra, ebbe gran pena a deciderlo ‑ Ad ogni istante egli esclamava :

‑‑ Ma il torto è mio, vorrei meglio scrivere al re di Inghilterra che gli ordini sono stati da me, che me ne dispiaccio, e che gliene domando perdono. Egli era all'opposto di suo padre Filippo V e di suo figlio Ferdinando, costante nelle sue affezioni, fedele alle sue amicizie, malgrado il potere che su lui esercitava la regina, ella non potè mai allontanare dalla corte il Duca Dassado, e noi leggiamo nelle storie misteriose pubblicate in Germania da Bulau, ed in Francia da Duekett, che dopo la presa di Avana, fatta dagli Inglesi, benchè questa colonia fosse perduta per colpa d'Aravo, suo ministro della Marina e delle Indie, egli dissimulò la propria pena per non accrescer quella del suo amico. E' vero che Aravo non credeva a quella perdita, poichè diceva egli, ogni mattina avea in un modo speciale raccomandato l'Avana alla Vergine. Però dovette arrendersi all'evidenza, e fu tale il dolore che provonne, che cadde gravemente infermo.

Quando il re intese le sofferenze del suo ministro, fecegli dire che poteva essere completamente tranquillo, che per tutto il tempo di sua vita, non gli parlerebbe mai di Avana, in nessun senso.

Ed in effetto, gliene parlò solamente nel 1763, per dirgli che mercè la pace, che andavasi a sottoscrivere, l'Avana eragli resa.

Ritorniamo all'anno 1744, ed agli avvenimenti ch'esso vide compiere.

L'armata Austriaca composta di Tedeschi, Transilvani, Illirici, Croati, e di Ungheresi poteva ascendere a 35000 soldati ‑ E quella combinata di Spagna e di Napoli poteva contare 36 o 37 mila combattenti.

La prima, come lo abbiam già detto, era comandata dal conte di Hobkwitz, la seconda da Carlo III in persona, avendo sotto di lui il Conte di Gayet per le genti Spagnuole, ed il duca di Castropignano per le Napolitane.

Dopo molte marce e contromarce, prive d'importanza. le due armate trovaronsi a fronte a Velletri. Questa città, patria di Augusto, illustrata nel 1849 dalla vittoria di Garibaldi è situata alla sommità di una collina dalla quale partono delle rapide chine coverte di vigne di olivi.

Tra vallate si estendono a piedi della collina sulle quali si trova la città, due di esse si prolungano al Nord ed all'occidente e vanno a finire al monte Artemisio, distante poco più di quattro miglia da Velletri.

Il campo del re di Napoli appoggiava la sua ala destra al monte Artemisio, la sinistra alla porta Romana, ed aveva il suo centro nella città medesima.

Le prime linee ed il fronte dell'armata non erano fortificate, ma semplicemente custodite.

Il parco di artiglieria e le macchine da guerra erano sul colle dei cappuccini, intorno al quale erano disposte forze considerevoli ‑ Altri accampamenti meno numerosi e meno ben fortificati occupavano gli approcci, disposti in modo però, che al primo colpo, od alla prima sorpresa l'armata intera potesse esser sotto le armi.

L'armata Austriaca coronava le montagne situate di fronte a Velletri e dominava tutto il campo del re Carlo III. Essa avea guasto i condotti d'una fontana che forniva d'acqua gli Spagnuoli ed i Napolitani di modo che questi soffrivano la sete ed erano astretti attinger l'acqua in un luogo lontano tre miglia. Ma gli Austriaci non eran meglio forniti di viveri, malgrado quanto ritraevano dalle città vicine e da Roma in particolar modo.

I due eserciti vicini tanto, da permettere agli Austriaci, i quali trovavansi più elevati dei loro avversari, di contar gli uomini ed i cannoni, erano fuori di tiro dell'artiglieria e quella delle due, armate, che volesse attaccar l'altra avea a traversar la valle che separavale.

Fu Carlo III che dopo un consiglio tenuto coi suoi generali risolvette d'impegnar l'azione.

Il generale di Gayet avea presentato un progetto, ed erasi offerto per mandarlo a compimento.

Consisteva esso a profittar di una notte oscura per impadronirsi del monte Artemisio ‑ Questo progetto fu adottato. Gayct adunque si mise in cammino fra le tenebre, come era stato convenuto, con quattro mila uomini, e condotto da buone guide, per sentieri deserti, giunse ai primi albori alla cima della montagna. Era essa custodita da mille soldati, i quali non essendo mai stati inquietati in quel posto, non sospettavano di poterlo essere, onde furon sorpresi quando meno se lo attendevano e sopraffatti da quella forza quadrupla, pria che avessero avuto tempo d'impugnar le armi.

Il comandante del luogo fu fatto prigioniero, un uffiziale superiore mortalmente ferito combattendo, e pochi soldati soltanto che riuscirono fuggire recarono la nuova della loro sconfitta al conte di Hobkwitz.

L'armata imperiale prese le armi immediatamente, ma pria ch'essa avesse potuto soccorrere il monte Spino, cioè la montagna più vicina al monte Artemisio, quello fu preso per scalata, con gli uomini che lo custodivano, i cannoni ed i viveri.

Questa doppia vittoria gettò tale terrore negli Austriaci che credendo tutte le posizioni vicine ad esser superate con la furia medesima, interi reggimenti presero la fuga e si precipitarono verso Roma, la quale credendoli inseguiti da vicino dagli Spagnuoli, e la rapidità della fuga giustificava questa supposizione, chiuse le sue porte, onde amici e nemici non entrassero insieme in atto.

Ma fu vana paura, il progetto non era d'impegnare un fatto generale, il quale per altro avrebbe potuto chiudere la campagna, se Carlo III avesse saputo trar profitto della fortuna. Il conte di Gayet limitossi alla presa del monte Artemisio, sul quale lasciò forze sufficienti per custodirlo, e tornò al campo, coi prigionieri l'artiglieria ed il bottino.

Le due armate rimasero come per lo innanzi, in uno stato d'osservazione reciproca.

Questo tentativo però avea fatto comprendere al conte di Hobkwitz ch'egli poteva eseguire, in modo più completo e decisivo quanto Gayet avea fatto.

Nella notte dell'otto agosto 1744 egli riunì i capi del suo esercito, ed espose loro un piano, di cui il risultato era di far prigioniero il re, penetrando nella città da un vecchio muro rovinato.

Le guide, sulla cui fedeltà egli poteva contare, s'incaricarono di condurre un corpo scelto al centro della città.

Questo corpo dovea sgozzar le sentinelle addormentate avanzarsi nelle vie uccidendo i soldati ed i borghesi che incontrerebbe, mettere il fuoco da per ogni dove, e fra il disordine causato dall'attacco ed aumentato dall'incendio, giungere fino alla casa del re. circondarla, e prender Carlo III o morto o vivo.

Mancò poco che la faccenda riuscisse completamente.

Nel corso della notte dal 10 all'11, Hobkwitz che dovea operare sulla destra dell'armata Spagnuola e Napolitana con nove mila uomini, Brown e Novati che doveano comandare la colonna di attacco composta di seimila soldati sull'ala sinistra, si misero in movimento.

Eravi pena di morte pel menomo grido gettato, o pel più lieve rumore fatto con le armi.

Novati e Brown entrano nel campo, schiacciano a primo colpo tre quarti d'un reggimento d'Irlandesi, abbattono quindi la porta detta di Napoli, e penetrano nella città dirigendosi verso la casa Ginetti, ove sapevasi essere il re, seguendo in tutto il prestabilito.

Il re destato in tempo dalle sentinelle, vestissi a metà, slanciossi fuori la casa da una finestra, e si diresse verso la montagna dei cappuccini, ch'era il punto meglio difeso in tutto il campo.

Qui la tradizione racconta, ed il fatto mi è stato ripetuto da un vecchio di 80 anni, di cui il padre assisteva non solo alla battaglia di Velletri, ma abitava nella casa medesima del re, che questi nel recarsi al monte, trovando la via occupata da una mano di Austriaci, ebbe tempo appena di slanciarsi in una casa di cui la porta schiudevasi.

Questa casa era occupata da una povera vecchia, la quale destata dallo strepito, ignorando quanto succedeva, apriva la porta per informarsene.

Ella fu, in sulle prime, spaventata non poco, vedendo quell'uomo mezzo nudo, con la spada in pugno che si precipitava nella sua casa, e ne richiudeva la porta.

Ma quando questo ebbele detto: salvami e la tua fortuna è fatta, ella si rassicurò aprì la bocca di un forno ed indicò quel nascondiglio al fuggiasco, il quale sentendo picchiare alla porta vi penetrò senza fare nessuna obiezione.

La vecchia chiuse il forno, aprì la porta, e mise la sua casa in mano agli Austriaci, i quali giudicandola povera troppo, perchè valesse la pena di porla a sacco, si contentarono di gettarvi una fiaccola per appiccarvi il fuoco ed andarono via.

Mentre la buona donna spegneva la torcia. il re uscì dal forno e vedendo la strada libera, slanciossi verso la montagna dei cappuccini, dopo aver fatto, con la punta della sua spada una croce al muro della casa onde riconoscerla.

Egli giunse senza accidente alla meta del suo corso.

Durante questo fatto il Duca di Modena e l'ambasciadore di Francia credendo tutto perduto, prendevano la fuga.

Il Duca di Atri, mezzo nudo, traversava le fiamme che divoravano la sua casa.

Mariani, infermo a letto, gittavasi sopra un cavallo che portavalo a caso.

Nicola Sanseverino fratello del principe di Bisignano facevasi uccidere in prima linea.

Mac‑Donald, nome famoso nelle nostre ultime guerre e già illustre nelle guerre precedenti, rimarchevole per la sua alta statura, montato sopra un cavallo che esponevalo a tutti i colpi, intento a raccogliere i fuggiaschi, fu rovesciato, col petto traforato da una palla.

I soldati Napolitani e Spagnuoli, troppo tardi destati per fuggire, aveano convertito le loro case in fortezze. facendo fuoco dall'alto dei tetti, dalle finestre e da feritoie improvvisate.

Alcuni di essi riuniti nelle cantonate delle vie si difendevano accanitamente; ma malgrado ciò bisognò evacuare la città.

In quel mentre il conte Hobkowitz riprendeva il monte Artemisio.

Alle sei del mattino. gli Austriaci erano vincitori; ma in quel punto il re si decise tentare un ultimo sforzo.

L'armata, sapendo che egli trovavasi ai Cappuccini, erasi riunita intorno ad esso. Aveasi dovuto retrocedere, è vero, ma erasi molto combattuto, e fuggito poco, di modo che i soldati erano furiosi più che scoraggiati.

Il re ordinò al conte di Gages di avanzarsi verso Hobkowitz. Era desso che avea preso la prima volta il monte Artemisio, toccava a lui il riprenderlo.

Fece avanzare Castropignano sopra Velletri ‑ Egli erane stato scacciato, spettava a lui rientrarvi.

Fece una riserva del resto dell'esercito, e misesi alla testa di essa, per andare ove il bisogno lo richiedesse.

Il monte Artemisio è ripreso da Gages.

La città è riconquistata da Castropignano, ed a nove ore la vittoria appartiene difinitivamente al re Carlo III.

Hobkowitz e Brown si ritirano nei loro antichi accampamenti. Novati fu fatto prigioniero nella casa abbandonata dal Duca di Modena, mentre egli inventariava le carte, ed il denaro lasciato dal duca.

Gli Austriaci ebbero due mila morti ed un ugual nu. mero di prigionieri.

Presso a poco eguale fu la perdita degli Spagnuoli e dei Napolitani, ma questi aveano l'onore della giornata e la coscienza della vittoria.

Il mese di agosto e di ottobre passarono nelle medesime situazioni, ma, come suole accadere in simile occasione, tutte le circostanze davano coraggio al vincitore e sfiducia al vinto.

Viveri, sussidi, effetti militari, e cavalli per soldati giungevano a Carlo da tutte le parti del suo regno, felici ed orgogliose del suo re. Il Duca di Lavello con una divisione completa lo raggiunse venendo dagli Abruzzi ove la sua presenza non era più necessaria, e finalmente una flotta spagnuola partita da Barcellona, traversava il Mediterraneo, benchè quel mare fosse occupato dagl'Inglesi, ed otto giorni dopo la sua partenza entrava nel porto di Napoli.

Nell'opposta parte, cioè nel campo austriaco, mancavasi di tutto. I cavalli morivano, i soldati mal nutriti, male alloggiati, infermavano o si scoraggiavano : l'inverno era giunto ed avea uniti i suoi tetri orizzonti a quelli del pensiero.

Nella  sera del primo novembre, le cose andarono se­condo il solito nel campo austriaco, i fuochi furono ac­cesi, i posti cangiati, le pattuglie fatte, ma a mezza notte Hobkowitz diede l'ordine della ritirata e si avanzò rapi­damente ed in silenzio verso il Tevere.

Quando l'indomani il re si accorse aver gli Austriaci abbandonato le loro posizioni, questi aveano sette ore di vantaggio su lui.

Egli si mise ad inseguirli, ma quando giunse sulla sponda sinistra del Tevere. trovò che essi erano già sulla destra. Aveano essi traversato il fiume metà sopra un ponte di barche e metà su quel famoso ponte Milvio che vide la vittoria di Costantino e la morte di Mazenzio.

Giulio Romano, sul disegno di Raffaello, ha fatto un magnifico quadro della vittoria di Costantino, e quel dipinto orna le anticamere del Vaticano.

Con minor successo il pittore Camillo Guerra ne fece uno rappresentante la battaglia di Velletri, che puossi vedere, ma che noi sconsigliamo di guardare nelle sale di Caserta.

Circa la povera donna che avea salvato la vita del re Carlo III nascondendolo nel suo forno, ed alla quale il re avea promesso di far la sua fortuna, essa fu oltremodo disillusa nel trovar vuoto il forno, e credette che la paura avesse fatto fare allo sconosciuto ufficiale una promessa che il tempo farebbegli dimenticare.

Ma Carlo invece se ne ricordò. Finchè abitò Velletri. egli non si fece dalla buona donna conoscere, ma erasi informato di lei ed avea saputo il suo nome.

Di ritorno a Napoli, ove egli entrò, dopo aver presa nel passare la regina a Gaeta, mandò a prender la sua salvatrice con una vettura senza stemma, ordinando dirle, s'ella faceva difficoltà a partire, che la si cercava d'ordine dell'ufficiale al quale ella avea salvato la vita.

La buona donna non fece difficoltà di sorta, anzi salì allegramente in carrozza, e lasciossi condurre a Napoli e fu molto sorpresa quando la vide fermarsi alla porta di una gran casa custodita da sentinelle.

Ma la sua meraviglia crebbe quando, ricevuta dal re medesimo nel suo appartamento particolare, questi nel quale ella credè effettivamente riconoscere l'ufficiale della notte del 10 agli  11 agosto, la presentò alla regina, come colei alla quale dovea la vita del suo sposo.

La buona donna fu colmata di doni, ricevette una pensione di 1.000 ducati, e quando il re fece costruire Caserta ella ebbevi la sua casa, fra le dipendenze del castello, e spesso il re, ricevendo ambasciatori o illustri personaggi conducendoli nei suoi giardini faceva loro vedere la capanna della povera vecchia, dicendo loro:

« Vedete questa buona donna ‑ Essa è la mia seconda madre ‑ la prima mi diè la vita, questa me la salvò. Come l'ho già detto, questo aneddoto mi è stato raccontato da Pio Gomez al quale avealo raccontato suo padre.

 

 

 

 

 

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 [*1] Gorani, memorie segnate sulle corti d'Europa.