I  BORBONI  DI  NAPOLI

 

Di Alexandre Dumas

 

Libro I – Capitolo IV

 

 

Carlo VII di Napoli ‑ Carlo III di Spagna.

 

Oltre la caccia, passione particolare dei Borboni. Carlo III avea un'altra mania di famiglia ‑ Quella di costruire. Luigi XIV rovinò la Francia con Versailles, Carlo III aggravò di debiti il suo regno con San Carlo, Capodimonte, Portici e Caserta.

E' vero che insieme a questi monumenti di lusso egli fece eseguire utili lavori ‑ come il Molo, la strada Marinella, la strada Mergellina e l'aquidotto di Caserta.

Il primo edificio intrapreso da Carlo di Borbone fu il teatro San Carlo. Egli ordinò al suo architetto Angelo Carasale antico maniscalco, che il suo genio avea slanciato verso le arti, di fabbricargli il più grande ed il più bel teatro d'Europa. Carasale che fidava nel proprio genio, si accinse all'opera, e promise fare una meraviglia.

‑Ciò non basta, disse il re, io ti do, sei mesi soli per farlo.

‑ E' troppo, rispose l'architetto, prevenite il direttore del teatro e gli artisti che il 4 novembre, giorno onomastico di vostra Maestà, non solamente esso sarà a termine ma potrà essere aperto.

Come avealo promesso l'abile architetto, il quattro novembre San Carlo aprivasi al pubblico ‑ Guernito di specchi ed illuminato a giorno esso parea un magico palazzo innalzato dalla bacchetta di un incantatore ‑ Il re entrò nel palchetto il quale era un piccolo palagio. Gli spettatori applaudirono il re, ma questi applaudì la sala, chiamò l'architetto, e mentre faceagli i più grandi elogi per l'opera sua, gli appoggiò la mano sulla spalla, quasi volesse dire agli assistenti : ecco l'uomo che ha fabbricato questa meraviglia.

Solamente a parer mio, gli disse il re, il nostro teatro manca di una cosa importantissima.

Quale sarà? gli chiese l'architetto meravigliato.

Essendo le mura di San Carlo attinenti a quelle del palazzo, voi avreste dovuto aprire un passaggio per risparmiarmi la pena d'uscirne.

Carasale non rispose e chinò il capo come chi confessi il suo torto.

‑ Sia bene, rispose il re, ci penseremo.

Carasale comprese ch'era congedato e si ritirò.

Finita la rappresentazione, il re, uscendo dal suo palchetto trovò Carasale nel corridojo.

‑ Sire, gli disse questi, se vostra maestà vuol rientrare al palagio per l'andito che ha desiderato, esso è in pronto.

Il re meravigliato seguì Carasale ed in effetti trovò una galleria adobbata di magnifiche stoffe, splendidamente illuminata, con ponti, scale, corridoi improvvisati in tre ore. In nessun luogo traccia di un lavoro recente, ma da per ogni dove miracoli di gusto, di lusso e di genio.

‑ In fede mia, disse il re, ecco qualche cosa di più meraviglioso della vostra sala, e voi siete un abile uomo, Carasale.

L'architetto tornò alla sua casa ebro di gioia ; non solo la sua fortuna era fatta, ma ciò che più importava al suo orgoglio, la sua reputazione era stabilita.

Pochi mesi bastarono a rovesciare tutti questi bei sogni.

Il favore del re era stato troppo grande, gli elogi erano stati troppo pubblici, perchè l'invidia non mordesse il povero artista.

Carasale citato a dare i suoi conti, fu sottomesso al medesimo esame d'un uomo, il quale non fosse stato sottoposto alle rovinose esigenze dei capricci reali ; ai suoi miracoli si diede il prezzo dei lavori ordinari, e la società di esame gli dichiarò che, lungi dall'aver meritato elogi e ricompense, egli correa rischio d'essere imprigionato.

L'architetto fece poco caso della minaccia. perchè contava sul re che aveagli dato pubblici encomi, che avea vantato l'abilità sua, che aveagli detto quelle tre parole, tanto difficili nella bocca di un re : « lo sono contento. »

Il re lo ricevette a meraviglia, e l'artista si ritirò pieno di speranza, credendo aver trionfato dei suoi nemici.

Tre giorni dopo egli venne imprigionato e condotto al castello S. Elmo.

La famiglia cercò invano di penetrare fino al re, nè sua moglie, nè i suoi figli ottennero mai questo favore.

Il più triste della faccenda si è che Carasale era veramente povero: per qualche tempo la famiglia rovinossi per mantenerlo, ma la vita costa cara in prigione, bentosto le risorse furono esaurite, e Carasale fu ridotto al pane della prigionia più amaro di quel dell'esilio.

Egli morì nel suo carcere, senza che si sappia nè quando, nè come ‑ Certo egli si estinse di dolore.

I suoi figli privati dell'appoggio paterno, rimasero sconosciuti, il suo nome medesimo scomparve dalla storia dei monumenti, e la guida officiale di Napoli, la quale non sarebbe stata certamente autorizzata dalla censura reale, senza questa compiacenza, diede l'onore dell'opera di lui all'Amitrano.

Il signore dia pace a quella povera anima irritata.

Nel 1738 Carlo III ordinò che un'altra fabbrica fosse incominciata ‑ il palagio di Capodimonte ‑ il quale. come ben si vede, non è stato costruito da un uomo di genio.

E’ desso un fabbricato pesante e di cattivo gusto che non appartiene a nessun genere di Architettura, e di cui l'architetto ha dovuto morire nel suo letto, ricco ed onorato, malgrado che, avendo dimenticato di visitare i terreni, egli fossesi accorto di aver fabbricato sopra immense cave, che potevano un giorno o l'altro aprirsi ed inghiottire il palazzo.

Bisognò triplicare quanto erasi speso pel castello onde sostenere la volta sulla quale poggiano le fondamenta di esso, rimasto incompiuto.

Il sito sul quale è fabbricato è uno dei più pittoreschi di Napoli, gli Spagnuoli lo chiamavano il Miradoi, ma non è pei meravigliosi orizzonti, che vi si scoprono, che Carlo vi ordinò la costruzione d'un castello ; la Dio mercè il re non spingeva a tal segno l'amor della natura : spese il danaro solo perchè nel mese di agosto vi si fermavano numerosi stuoli di becca‑fichi.

Sette ad otto milioni furonvi impiegati da Carlo per aver tutti gli anni quindici giorni di caccia ad uccelli che valgono un tornese (mezzo grano) sulle piazze di Napoli, al tempo del loro passaggio.

I becca‑fichi fecero innalzare Capodimonte ; le quaglie fecero costruire il castello di Portici. Vi si destinarono cinque o sei altri milioni, che l'architetto Canovari fece spendere per un meschinissimo capo d'opera. E siccome faceasi osservare al re che spendevasi una ingente somma Per una campagna, situata alle falde del Vesuvio., e che il primo terramoto poteva rovesciare, e la prima eruzione gittare nel mare.

Bene, rispose egli tranquillamente, proseguite, Canovari, quest'affare riguarda il Signore, la Santa Vergine e San Gennaro.

Venne quindi la volta di Caserta. Fabbricata per rivaleggiare con Versailles, in un sito ancor più tetro, nel mezzo di montagne nude e senza bellezza nelle forme.

Una città Lombarda di cui le rovine finiscono di crollare, sopra una collina lì presso le dà il suo nome, Casa-erta.

Un architetto venne espressamente da Roma per innalzare questa cattiva costruzione senza gusto, senza armonia e senza eleganza e che si raccomanda soprattutto pei suoi tre giardini.

Il suo giardino regolare della scuola di Lenotre, con la cascata. la sua Diana, le sue ninfe ed il suo Atteone cangiato per metà in cervo.

Il bosco degli antichi Duchi di Caserta, antica foresta feudale, maestosa regina del castello.

Ed infine il parco inglese, creato dalla regina Carolina nel 1782, quasi nel medesimo tempo che sua sorella Maria Antonietta edificava il piccolo Trianon.

Un aquidotto, quello di Marly, conduce mercè grandi spese le acque della Senna a Versailles, un altro dovea condurre le acque del Monte Taburno a Caserta. Solamente quest'ultimo con le sue 27 miglia di lunghezza, col suo ponte della Valle di Maddaloni. rivale del ponte del Gard, la vince di ,,rari lunga. sul pesante spiacevole aquidotto di Marly.

Le acque di Caserta riunite a quelle di Carmignano bastano ai bisogni di Napoli.

Forse invece di dire bastano, noi dovevamo dire non bastano ai bisogni di Napoli. lo non ho mai visto città peggio dissetata, e con acqua peggiore. della capitale delle due Sicilie. Una sola fontana, quella del Leone, di acqua potabile, ma è dessa situata a Posillipo, cioè alla estremità di Napoli.

E’ vero che se l'acqua è cattiva a Napoli il vino vi è detestabile.

Ritorniamo al re Carlo III. dal quale questo ghiribizzo ci ha allontanati.

Nell'anno medesimo 1738. nel quale Capodimonte di disastrosa memoria fu cominciato. fecesi pensare al re che nelle vicinanze di Napoli eranvi sotterra delle meraviglie ben più ricche. di quelle ch'egli volea innalzare sulla sua superficie.

I nomi di Pompei e di Ercolano furono pronunciati, e si decretò che si sarebbero immediatamente proseguiti gli scavi d'Ercolano già cominciati e meglio conosciuti di quelli di Pompei.

Ercolano era conosciuta nella geografia antica, gli autori che ne parlano, ne stabiliscono più o meno bene la situazione ; uno scavo fatto a caso avea constatato il luogo ove era sepolta la città, fra Resina e Portici.

Diciamo per qual capriccio del caso e per quale concatenamento di circostanze, questa rivelazione artistica venne fatta all'Europa.

Il 30 Dicembre 1677 era nato, in quella grande famiglia d i Elbeuf, secondogenito di Guisa, che dal 1496 rappresenta la sua parte nella storia di Francia, il principe Emmanuele Maurizio, consagrato o meglio, destinato alla Chiesa fin dell'Infanzia, e conosciuto sotto il nome di Abbate di Lorena; egli cambiò un bel giorno la sottana con l'abito militare, e come il principe Eugenio venne ad offerire i suoi servigi a Luigi XIV. il quale li ricusò.

Umiliato da quel rifiuto egli lasciò la Francia sotto pretesto di visitar sua sorella la principessa di Vaudemont la quale soggiornava in Italia, ma invece di andare a raggiungerla egli recossi a Vienna, fuvvi ricevuto a braccia aperte e sotto gli ordini del principe Eugenio fece la campagna del 1706, divenne colonnello proprietario di un reggimento di corazzieri, nell'armata imperiale, mentre gli si facea un processo in Francia e che lo si condannava a morte come profugo.

Nel 1708 egli passava al servizio di Napoli, dove creato maggior generale e grande di Spagna, egli sposò la figlia del duca di Sassonia.

Egli abitava con sua moglie una villa presso Portici, e facendo scavare in quelle vicinanze un pozzo, quando gli operai spaventati corsero a dirgli che, invece di quel che cercavano, aveano trovato una città sotterranea.

Il principe di Elbeuf scese egli stesso nel pozzo, ordinò gli scavi e trovò le tre magnifiche statue panneggiate che trovansi ora nel Museo di Dresda.

Quella città sotterranea era Ercolano.

Il re ordinò nel 1738 che gli scavi cominciati dal principe Emmanuele fossero continuati.

Il successo coronò l'opera : scovrissi un teatro, il meglio conservato che siavi al mondo, strade, case, una basilica, un foro, bagni e la magnifica villa detta dei Papiri. Artisti e sapienti furono chiamati a riconoscer la città che restauravasi e l'Europa intelligente si scosse all'idea di vedere una città antica uscire intera, e per così dire vivente, come Lazzaro dalla sua tomba.

Giammai Ercolano vivente avea occupato il mondo, quanto Ercolano morta.

La scoperta fu giudicata importante tanto, che come erasi fatto venire un architetto da Roma per fabbricare Caserta, se ne fece venire un sapiente per spiegare Er­colano. Questi, che pretendevasi discendente di Bajardo, chiamavasi il dottor Bajardi, ed avea missione di fare un catalogo degli oggetti trovati ad Ercolano e conservato a Portici. Mentre eseguivansi le incisioni egli ottenne il permesso di fare la prefazione dell'opera, prefazione la quale contava già sette grossi volumi, mentre era ancora ad un terzo della meta propostasi, e che ritardò di otto anni l'esecuzione del lavoro, ciò che vedendo il re, tornò ai sapienti del suo regno, fondò l'accademia Ercolanese, alla quale fu lasciata la cura di classificare e di descrivere gli oggetti scoperti.

Questa accademia cominciò nel 1760 la pubblicazione della sua opera.

Come tutte le città del litorale della Campania Ercolano dà alla sua nascita un'origine favolosa. Essa, come lo indica il suo nome, prende Ercole come fondatore, e fissa l'epoca della sua fondazione a sessanta anni prima della guerra di Troja.

Ciò che vi è di probabile in tutto ciò, si è che la sua fondazione come quella di Cuma è Pelasgica, che i Pelasgi ne furono scacciati dagli Etruschi, e questi dai Sanniti.

Ciò che v'è di certo si è che Ercolano è autenticamente nominata dagli autori latini, all'epoca delle guerre sociali. Ella seguì allora il partito dei popoli Italiani e ne subì le sorti. Assediata dal console Tito Didio essa fu presa e ridotta in colonia, conservò però il dritto di reggersi con le sue leggi e di nominare i suoi magistrati. I monumenti scoverti ad Ercolano constatano che i magistrati portavano il nome di Demarchi e di Arconti.

I Romani durante il mezzo secolo di lusso che precedette l’impero e durante i due secoli simili che lo seguirono aveano trasformato in una immensa casa di campagna tutto quello splendido semicircolo che comincia alla punta della Campanella e finisce al capo Miseno. Cicerone dice che molti Romani aveano case ad Ercolano, ove passavano la maggior parte dell'anno ‑ egli medesimo aveane tre in Campania. Una a Gaeta ove fu ucciso, una a Pozzuoli, e l'altra a Cuma.

Strabone ‑ Plinio ‑ e Stazio ne parlano come di una città importante, come una delle principali della Campania.

L'anno 63 di Gesù Cristo. Ercolano, dice Seneca, ebbe a soffrire da un terremoto ‑ Seneca morì nel 65, una parte della città, egli narra, fu abbatuta, l'altra rimase vacillante. L'eruzione del 79 la fece scomparire.

Gli scavi han dimostrato che l'antica Ercolano era costruita a 23 o 24 metri al di sotto del terreno attuale, e che sei strati di materie vulcaniche sono venuti ad aggiungersi pel corso di 1800 anni a quello che la ricoprì nel 79.

Oggi non possono proseguirsi gli scavi d'Ercolano senza esporsi al pericolo di far sprofondare una parte della città di Resina.

Il teatro fu il primo punto sul quale gli scavi si compierono, perchè era quello già attaccato dal principe di Elbeuf.

Dalle iscrizioni scoverte si riconobbe che era stata costruita dall'architetto Numisio, per ordine ed a spese di Mamiano Rufo.

Nella basilica, in mezzo a molti altri oggetti preziosi trovaronsi le statue dei due Balbo. Finalmente nella casa di campagna si rinvenne nel 1780, il capo lavoro dell'architettura antica, la statua di Aristide.

Nel numero degli oggetti più preziosi è, d'uopo porre i papiri trovati in quella medesima casa di campagna e che la fecero chiamare la villa dei papiri.

Questi papiri erano manoscritti avvolti e carbonizzati contenenti opere della Filosofia Greca. La chimica ha trovato modo di svolgere questi manoscritti e decifrarne i caratteri.

Il re Ferdinando, il quale non seppe mai leggere correntemente, nemmeno il dialetto napolitano, sola lingua che egli parlasse, non faceva, come è agevole comprendere, gran conto di questi pezzi di carboni sui quali eravi scritto in greco. Ne diede dieciotto all'Inghilterra, che donogli in cambio diciotto kangoru.

Sir Guglielmo Court fu incaricato di questo importante negoziato, e lo condusse a bene a grande soddisfazione del re Ferdinando.

Nel 1748 il caso fece scovrire il vero luogo ove trovavasi Pompei. Alcuni contadini lavorando ad una vigna presso Sarno incontrarono una costruzione antica e scopersero parecchi oggetti i quali fissarono le curiosità dei Sapienti. La nuova fu recata al re, il quale incoraggiato dalle scoperte di Ercolano, si assicurò della verità del fatto, comprò i terreni e fece continuare gli scavi, tanto più facili, in quanto che non si eseguivano, come ad Ercolano, fra masse di lave e di materie vulcaniche, ma in una cenere friabile che opponeva poca resistenza ai travagliatori. Così il re trovava piacere sommo ai lavori di Pompei ed assistevavi frequentemente, ricreandosi a dirigerli egli medesimo. Un giorno si mise allo scoperto innanzi a lui una massa di forma ovale. formata di ceneri e di pietre, talmente legate insieme ch'ella era divenuta dura come uno scoglio. Si ruppe con molta fatica quella massa, e trovaronsi nel centro monete di rame, d'oro e d'argento, ed infine un anello di oro sul quale era incisa una maschera.

Il re compiaciuto della scoverta, appropriossi quello anello, come sua parte di lavoro.

Pompei, lo abbiam detto, fu sepolta dall'eruzione medesima che distrusse Ercolano. Tito Livio e Floro parlano del suo porto magnifico che fu colmato dalla sabbia e dalla cenere, che respinsero il mare a più di mezza lega. Cicerone la cita, ed in una lettera a Sulpicio gli dice: Tusculum et Pompeianum valde me delectant: Tusculo e Pompei mi ricreano al di là d'ogni cosa.

Si sa che fu, nell'andare a rilevare i soldati di marina di guardia sulla riva di Pompei e di Stabia, ch'egli credeva esposte ad un pericolo di morte a causa della fedeltà con la quale era sicuro che custodirebbero il loro posto, che Plinio l'antico, comandante la flotta di Miseno fu soffocato sulla riva.

Il giovine Plinio racconta quella eruzione e gli ultimi momenti della vita di suo zio, con tutte le particolarità. Ci si permetta di citare la sua lettera che non ci sembra qui fuori di luogo.

« Mio zio era a Miseno ove comandava la flotta; il 23 agosto verso un'ora dopo il mezzogiorno mia madre lo avvertì che compariva una nube di grandezza e di forma straordinaria. Egli si alzò tosto, e salì ad un luogo d'onde poteva facilmente osservare il prodigio. Da lungi era difficile discernere da qual montagna uscisse la nube. La sua forma rassomigliava ad un albero, specialmente ad un pino : in effetti dopo esser salita ben alta. in modo di tronco essa stese qualche cosa che rassomigliava, a' rami. lo mi immagino che un vento sotterraneo la spingesse da principio con impetuosità e la sostenesse, ma sia che l'impulso diminuisse poco a poco, sia che la nuvola fosse indebolita dal proprio peso, la si vedeva dilatarsi e distendersi. Essa mostravasi or bianca, ora nerastra o d'altro colore secondo che era più o meno carica di cenere e di terra.

Questo prodigio sorprese mio zio, che era sapientissimo, ed egli lo credette degno d'essere esaminato più da vicino. Ordinò allora che gli si preparasse la sua liburne e volgendosi mi chiese se volessi seguirlo o restare. Siccome aveami dato qualche cosa da scrivere, io gli risposi che amavo meglio restare e studiare. Egli usciva di casa con le sue tavolette in mano, quando i marinai della flotta ch'erano a Resina, spaventati dalla grandezza del pericolo, poiché quel luogo è precisamente alle falde del Vesuvio e non potevasi uscirne per salvarsi che per la via del mare, venivano a supplicarlo di soccorrerli.

Ma mio zio non cangiò disegno e proseguì con eroico coraggio, ciò ch'egli avea cominciato per semplice curiosità. Fè venire allora alcune galere, vi sale egli medesimo, e nell'intenzione di veder qual soccorso potesse arrecarsi non solo a Resina, ma a tutti i borghi di quella spiaggia, che sono numerosi a causa della sua bellezza, egli si affretta ad arrivare al luogo d'onde tutti fuggivano e dove il pericolo compariva più grande; ma conservando una tale libertà di spirito, che ogni qual volta scopriva un movimento o qualche forma nuova e straordinaria nel prodigio, egli faceva le sue osservazioni e le dettava.

Diggià la cenere, più spessa e più calda a misura che avanzavasi, cadeva sulle sue galere ; già cadevano loro intorno pietre calcinate e sassolini completamente neri, bruciati e polverizzati dalla violenza del fuoco , diggià il mare sembrava retrocedere, e la riva divenire inaccessibile, a causa di frammenti interi di montagne dalle quali era chiusa, quando, dopo essersi fermato alcuni momenti incerto se dovesse retrocedere, disse al suo pilota che consigliavagli di guadagnar l'alto mare.

‑ La fortuna ajuta gli audaci, dirigiti verso Pomponiano.

Pomponiano era a Stabia in un luogo separato da un piccolo golfo formato insensibilmente dal mare su quelle rive che fan curva. Colà nel vedere che il pericolo era ancora lontano, ma che avvicinavasi evidentemente ad ogni momento, Pomponiano avea fatto portare tutto ciò che avea di prezioso, sui suoi vascelli, ed aspettava per allontanarsi un vento meno contrario ‑ Mio zio al quale quel vento medesimo era stato favorevolissimo, gli si avvicina, lo trova tutto tremante, l'abbraccia, lo rassicura, lo incoraggia e per dissipare con la sua sicurezza il timore dell'amico si fa portare un bagno, e dopo esservisi tuffato si mette a tavola e cena con tutta la sua allegria, o cosa non meno coraggiosa, con tutte le apparenze della sua ordinaria gajezza.

« Però da molti luoghi del monte Vesuvio, vedevansi luccicare grandi fiamme ed incendi, di cui le tenebre aumentavano il chiarore; mio zio per rassicurare coloro che lo accompagnavano, diceva loro che ciò ch'essi vedevano bruciare erano i villaggi abbandonati dai contadini impauriti, e che non erano stati soccorsi. In seguito egli coricossi e dormì profondamente, perchè, siccome egli era pingue, lo si sentiva russare dall'anticamera; ma finalmente il cortile dal quale entravasi nel suo appartamento cominciavasi tanto a riempire di cenere che se per poco vi fosse restato più a lungo, non avrebbe potuto più uscirne ‑‑ Lo si sveglia, egli allora esce e va a raggiungere  Pomponiano  e gli altri che avevano vegliato mentre egli dormiva ‑ Tengono consiglio e deliberano se debbono rinchiudersi nella casa o vagar per la campagna, perchè le case erano talmente scosse dai frequenti terremoti, che sarebbesi detto esser desse in procinto di venire divelte dalle loro fondamenta e gettate or da un lato ed or da un altro, quindi rimesse a posto. Fuori della città la caduta delle pietre benchè leggiera e disseccata dal fuoco era a temersi. Fra questi pericoli si scelse la rasa campagna: appo quei del suo seguito una paura scacciò l'altra, in lui la ragion più forte la vinse sulla più debole.

« Escono adunque covrendosi il capo con cuscini li­gati con pezzuole, sola precauzione che presero contro ciò che dall'alto cadeva. Il giorno spuntava altrove, ma ove essi trovavansi continuava la notte scura e spaven­tevole, dissipata solo un poco, da gran numero di faci ed altri lumi. Si credette buona cosa avvicinarsi alla ri­va, onde esaminare quel che il mare permettea di ten­tare. ma lo si trovò ancora molto grosso ed agitato da un vento contrario. Colà mio zio chiese acqua, ne bevve due volte e si coricò sopra un lenzuolo che fece disten­dere. Bentosto le fiamme che comparvero più intense, ed un odore di zolfo che ne annunziava lo avvicina­mento misero tutti in fuga; mio zio si alza, appoggiato sui suoi due servi e nel medesimo momento ricade mor­to. lo credo che un fumo troppo denso lo soffocò, tanto più ch'egli avea il petto debole e spesso il respiro imba­razzato.

« Quando si ricominciò a veder la luce, cioè tre giorni dopo, ritrovossi al luogo medesimo, il suo corpo intero, coperto dell'abito stesso ch'egli avea quando morì, e nella giacitura piuttosto d'un uomo addormentato che d'un cadavere. Durante quel tempo mia madre era meco a Miseno, ma quel che noi vi facevamo non riguarda più la vostra storia, poichè voi volete essere informato solo della morte di mio zio. Finisco dunque ed aggiungo una sola parola ; che quanto vi ho detto è stato o visto o inteso da me in quel momento in cui la verità della azione che si è compiuta non può essere alterata -

Addio.

Questa pioggia di cenere di cui parla Plinio il giovine, seppellì Pompei, e da quel lenzuolo Carlo III cominciò a trarla.

Disgraziatamente i re suoi successori non vi spiegarono l'attività medesima: oggi appena un quinto della città, dopo cento ed alcuni anni, è spazzata. Si è calcolato che per completare l'opera di dissotterrazione, bisognano presso a poco 2.900.000 franchi e che seguitando, come ora lavorasi, si impiegherebbero 380 anni a scoprire i quattro quinti che rimangono.

 

 

 

 

 

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