I  BORBONI  DI  NAPOLI

 

Di Alexandre Dumas

 

Libro I – Capitolo V

 

 

Carlo VII di Napoli ‑ Carlo III di Spagna.

 

Nel 1746 il re Filippo V morì, e suo figlio, fratello maggiore di Carlo III, ma d'un'altra madre come già l'abbiamo detto, gli succedette sotto il nome di Ferdinando VI.

Questo principe morendo senza figli nel 1759, doveva lasciare il trono di Spagna a suo fratello Carlo III.

Qualche tumulto ebbe luogo in Napoli l'anno precedente a cagione di tentativi fatti dalla coi‑te di Roma, per introdurre l'inquisizione nel regno delle due Sicilie ‑ questi tentativi di re e di papi, questa avversione del popolo, ascendevano alla conquista di Napoli fatta da Ferdinando il Cattolico.

Col pretesto d'un editto che scacciava da Napoli e da tutto il regno i Mori e gli Ebrei, il re Ferdinando tentò d'introdurre l'inquisizione nei nuovi stati, ma il popolo si sollevò, e leggesi nell'arte di verificare le date, che il gran d'inquisitore avendo mandato a Napoli per ordine di Ferdinando l'arcivescovo di Palermo con una commissione di inquisitore, il popolo si sollevò e lo cacciò dal regno e fé dire a Ferdinando che per espellere qualche povero Moro e qualche misero Ebreo, non era mestieri impiegare dei mezzi violenti.

Ferdinando in questa occasione promise solennemente ai Napolitani di non mai stabilire l'inquisizione fra loro.

Ma i re che succedettero a Ferdinando non si tennero legati dalle promesse del loro predecessore; d'accordo coi papi essi tornarono varie volte alla carica pensando che male si potrebbe regnare sui corpi, se non si cominciava dal regnare sulle anime; d'Egly nella sua storia delle due Sicilie racconta in tutti i loro particolari i tumulti cagionati da questo primo tentativo e da quelli che lo seguirono.

Roma non si stancava, e come i Napolitani la vedevano lavorare costantemente al suo scopo con astuzia ed ostinazione, stabilirono per sorvegliarla in tutti i suoi raggiri una commissione avente per meta di denunziare ogni tentativo il cui scopo fosse di ristabilire il S. Uffizio.

Questa commissione si chiamava per conseguenza, Deputazione contro il Sant'Uffizio.

Nel 1793 essa esisteva ancora.

Ritorniamo alla nuova prova tentata da Roma nel 1745. Benedetto XIV ‑ Lambertini, ‑ il quale aveva scritto un trattato sulla Beatificazione, ebbe l'idea di aggiungere l'esempio al precetto e canonizzò cinque nuovi santi.

I Romani avevano un Panteon per tutti gli Dei, da qualunque parte venissero ‑ i Napolitani non meno tolleranti hanno un Paradiso per tutti i santi, qualunque sia il Papa che li beatifichi.

Essi accettarono dunque i nuovi santi di Benedetto XIV, fecero celebrar loro delle Messe, e comprarono delle loro reliquie.

Il papa vedendoli di così buona pasta, pensò essere giunto il momento di fare un nuovo tentativo in favore dell'inquisizione, e incaricò l'arcivescovo di Napoli, il Cardinale Spinelli di tentare un'altra prova per istabilire a Napoli il Tribunale del Sant'Uffizio, pel quale i papi i più tolleranti, e certo Lambertini era fra questi, professavano tanta devozione.

Egli creò a tal uopo dei Consultori e dei Cancellieri, fece incidere un sigillo particolare per le vegnenti procedure, dispose delle prigioni, vi rinchiuse dei prigionieri e fece abjurare due fra di loro.

Tutto ciò era avvenuto senza rumore e senza scandalo: la Commissione contro il Sant'Uffizio non aveva nulla veduto : ‑ il Cardinale Spinelli incoraggiato dagli elogi del S. Padre, confidente nella fede del re, convinto che niuna cosa può esistere, se non ne è conosciuta l'esistenza, decise di rischiar tutto, e in una bella notte fece incidere sulla porta della casa ove si radunava il Tribunale :

 

SANT'UFFIZIO

 

Quest'audace tentativo perdette ogni cosa la Deputazione contro il Sant'Uffizio gridò per la violazione dei Privilegi della città di Napoli; ‑il popolo, che non aveva osservato l'iscrizione per l'unico motivo di non saper leggere, dal momento in cui ne conobbe il significato, si radunò davanti alla casa gridando che ove l'iscrizione non scomparisse egli la farebbe scomparire colla forza.

L'eletto del popolo si recò dal re, e gli fece un quadro esatto della situazione.

Il popolo ha ragione, disse il re, gli è stata fatta una promessa, e questa promessa deve essere mantenuta.

Allora con un editto datato dallo stesso giorno, egli disapprovò la condotta del Cardinale Spinelli, e diede ordine perchè l'iscrizione fosse annientata.

Qualche giorno dopo il Cardinale Landi, inviato dal Papa, giunse per reclamare contro il rigore dlla decisione reale ‑ ma la sola risposta di Carlo III fu quella di far incidere il suo editto sopra una tavola di marmo, e di far impiombare questa tavola nella Casa del Comune.

A questa occasione il popolo decretò un'imposta volontaria di 30,000 ducati e ne fece presente al re in segno di riconoscenza.

Carlo III non ebbe però la stessa fermezza di volontà riguardo agli Ebrei: ‑ proscritti da più di due secoli e mezzo essi erano ritornati a Napoli dietro una sua promessa; ‑ ma il popolo incitato da un Gesuita che godeva molta venerazione domandava la loro espulsione e la regina si aggiunse al popolo dicendo fermamente al re come un monaco di S. Francesco il quale aveva fama di Profeta l'avesse assicurata non dover Ella mai partorire fanciulli maschi finchè gli Ebrei fossero n'el suo regno.

Quest'ultima influenza, la più forte sull'animo di Carlo III, produsse il bando degli Ebrei, al cui annunzio si rallegrò di vero cuore il popolo napolitano.

Dieci mesi dopo la regina partorì un maschio, ma come, senza dubbio Carlo III non aveva dato l'ordine di espulsione che forzatamente, Dio fece la grazia per metà: ‑ Il fanciullo maschio era idiota!

Noi abbiamo già detto a proposito della opposizione fatta dal popolo al S. Uffizio che l'Eletto del popolo si recò dal re.

E' cosa ben naturale che ci venga domandato chi era questo Eletto del popolo, e come sotto un governo divenuto assoluto, invece di feudale, vi potesse essere un Eletto del popolo.

Oggi ancora percorrendo la città di Napoli trovansi dei portici decorati all'interno di pitture e scudi scolpiti.

Sono quei sedili o seggi di cui è sì sovente questione nella storia di Napoli.

L'origine di questi sedili o seggi risale alla più alta antichità : ‑ quando le città o le colonie greche erano democraticamente governate, trovavansi vicino o fuori delle porte dei luoghi riservati ove si riunivano i magistrati ed i principali cittadini per trattenersi degli interessi pubblici e privati.

Si trovano ancora in oggi degli scanni di questa specie alla porta di Pompei.

Come città greca e democratica, Napoli aveva alle sue porte e nell'interno della Città vari di questi seggi, ch'essa conservò sotto i Romani ed anche più tardi ‑ sotto i Normanni ‑ la casa di Svevia e la casa d'Angiò ‑ al tempo di Carlo d'Angiò, cioè nel XIII secolo, se ne contavano ancora ventinove.

Sopra ventinove Seggi il popolo ne aveva uno: ecco quanto gli rimaneva delle sue antiche prerogative; avendo un seggio, egli aveva un Eletto, poichè questi seggi mandavano ognuno un deputato alle assemblee convocate dai re o dai vicere.

L'Eletto del popolo rappresentava i ventinove oliry o quartieri.

Come i re convocavano raramente le assemblee, quasi mai i parlamentari, ‑ questi seggi divenuti quasi inutili e poco incoraggiati dalla Sovranità, poichè per quanto debole essa fosse la loro esistenza, presentava sempre una opposizione, questi seggi diciamo poi furono ridotti a cinque.

Ma il popolo conservò il suo seggio, cioè il suo dritto di avere un Eletto.

I cinque rimasti presero il nome di Capuano, di Montagna, di Nilo, di Porto e di Portanova.

Ed erano i deputati di questi seggi, aiutanti dei 29 membri scelti nelle riunioni dei seggi, numero che ricordava quello dei 29 primi, quei che formavano il municipio della Città.

Ferdinando primo li distrusse nel 99: l'epoca stessa in cui distrusse la rappresentanza del regno, la nobiltà e la distinzione delle famiglie.

In questo modo non eravi più che una sola autorità nello stato, quella del trono.

Quanto dicemmo a proposito dei seggi ‑ c'invita ad aggiungere qualche parola sul feudalismo, quella delle tre potenze dello stato che unitamente al Clero fu la più combattuta da Tanucci, la più avvilita da Carlo III.

Il braccio baronale era uno dei tre poteri del regno delle due Sicilie.

Sotto i Normanni esso era diventato onnipotente.

Nel 1066 mentre i Normanni erano occupati a scacciare i Saraceni dalla Sicilia, convocarono un'assemblea generale per pensare ai mezzi di continuare la guerra.

Questa assemblea dello stato e del carattere di quelli che la componevano fu chiamata il braccio Militare o Baronale.

Dessa visse sola dapprima: ‑ quindi il clero essendo divenuto una potenza, l'assemblea Militare si unì ad una deputazione Clericale, che fu chiamata il braccio ecclesiastico.

Finalmente i re non potendo imporre alcuna tassa, ma dovendo invece appagarsi delle offerte dei sudditi conosciuti sotto il nome di Dono Gratuito, convocarono i proprietari liberi dei gran domini per ottenere da loro i tributi volontari, e da queste convocazioni nacque il braccio demaniale.

Quando si riunivano questi tre ordini in una sola assemblea, prendevano il nome di Parlamento, ed era questo parlamento che votava e fissava le imposte ‑ poichè come già lo abbiamo detto il governo non aveva diritto di tassare la nazione se non che in tre casi.

‑ Per riscattare il re se fosse cattivo,

‑ Per respingere una invasione,

‑ Per comprimere una rivolta.

Si comprende facilmente quale influenza dovesse prendere il feudalismo sotto i re angioini e quelli della casa di Svevia, re guerrieri, i quali sempre in guerra anche colla Chiesa, facevano concessioni sopra concessioni ai loro vassalli, affinchè questi dessero loro del denaro o degli uomini.

Sotto i re e soprattutto sotto i vicerè Aragonesi, il feudalismo si trovò in decadenza, perchè la pace lo rese inutile: dal momento in cui i re delle due Sicilie non ebbero più bisogno dei loro vassalli, essi non li temettero più per cui il feudalismo divenne indifferente ai sovrani ed ai loro rappresentanti.

Ma cessando di essere i tiranni dei loro re, i signori lo divennero dei loro servi ‑ oziosi, e padroni assoluti nei loro Castelli essi tiranneggiavano i loro popoli, poichè ogni signore feudale aveva il suo piccolo popolo, e da ciò risultò che quando Carlo III salì sul trono, i Signori divenuti uomini vili e corrotti pesavano dispoticamente sopra una massa corrotta e avvilita.

Tanucci apparteneva ad una classe non ancora creata in Napoli, la quale divenuta poi grande ed intelligente fece la forza degli Stati; ‑egli era un uomo del terzo ceto ; figlio di gente del popolo, diventato professore mercè la sua educazione ed il suo ingegno, per conseguenza dovendo tutto a se stesso.

Vi hanno tre cose abborrite dalla intelligenza del popolo, il quale mediante questa intelligenza venne innalzato fino alla borghesia.

‑ Il Clero, come l'Egoismo di setta.

‑ La nobiltà, come il Privilegio di casta.

‑ L'armata, come la Forza brutale.

Or bene, Tanucci nemico naturale di questi tre poteri, combattè Roma, levò al Clero una parte delle sue immunità e della sua influenza, affievolì il potere dei baroni abolendo quasi tutte le loro giurisdizioni, sottomettendo le loro sentenze ai tribunali ordinari, sostenendo costantemente contro di loro i diritti dei comuni e facendoli quasi sempre prevalere: finalmente, egli lasciò cadere la armata da se sola e fu cosa facile avendo avuto quattordici anni la pace sotto Carlo 111 e trattandosi d'un popolo disposto al riposo e non domandando di meglio, quanto di veder gli altri a combattere in sua vece.

Ma abbassando il Clero, distruggendo la Nobiltà, disorganizzando l'Armata, egli creò questa nuova classe che in Francia si chiamò la Borghesia fino all'89 e nell'89 si battezzò da se stessa col nome di Terzo Ceto.

E gli uomini nati dopo l'umiliazione del Clero, dopo la distruzione della gran Signoria, dopo la disorganizzazione dell'Armata cioè dal 1750 al 1765, furono gli eroi ed i martiri del 1799.

In mezzo a questo periodo dì trasformazione che Tanucci doveva percorrere durante ancora diciassette anni, il popolo napolitano mollemente abbandonato ad un riposo che gli era sconosciuto, ad una mezza felicità ch'esso doveva non già al lavoro sociale compiuto, ma alla benignità del suo sovrano, si scosse ad un tratto dal dolore cagionato dalla morte di Ferdinando VI.

Questa morte le cui strane particolarità sono forse indegne della storia, rapiva Carlo III al trono di Napoli e lo trasportava al trono di Spagna.

Ferdinando VI il quale era stato quasi imbecille durante tutta la sua vita, era morto pazzo o piuttosto idiota all'età di 46 anni.

Egli aveva ereditato la malattia di suo padre, giudicata da Alberoni con queste parole:

- Il re di Spagna non ha bisogno che di due cose: una donna ed un ginocchiatoio.

Fintanto che sua moglie Maria Barbara, figlia del re Giovanni V di Portogallo, visse, tutto andò bene, ma il 27 agosto 1758 ella morì, e la sola cosa rimastagli delle due cotanto necessarie a suo padre, l'inginocchiatoio, non gli bastò più, e fu d'uopo tenerlo colla forza onde impedirgli di profanare l'infelice regina durante la sua agonia e dopo i ricevuti sacramenti.

Alquanto prima la morte della regina, la quale finì di portargli verso il cervello il Furor Aphrodisiacus, egli aveva già avuto qualche attacco di follia.

Questa follia era l'idea fissa di essere attentato nella vita.

Del pari che il re Saulle non trovava sollievo che nell'udire l'Arpa di David, Ferdinando VI non si calmava che agli accenti di Carlo Broschi più conosciuto sotto il nome di Farinelli, e che egli aveva fatto Cancelliere di Calatrava.

Ma questi accenti stessi che avevano calmato gli ultimi anni di Filippo V e che sollevavano lo spirito agitato di Ferdinando VI, furono infruttuosi allorchè gli fu detto quasi nello stesso tempo come Luigi XV, fosse stato minacciato di essere assassinato da un colpo di coltello, e Giuseppe Il in Portogallo da un colpo di pistola.

La prima di queste due notizie lo aveva fortemente agitato, la seconda lo atterrò.

Egli s'orizzontò nella sua camera, in maniera di avere la Francia alla destra e il Portogallo alla sinistra ‑ poi dopo aver riletto il dispaccio ch'egli teneva ancora nelle mani, esclamò con una voce lamentevole:

Stilettata di qua, Pistolettata di là, ed io in mezzo - Oimè ! E si cacciò sotto al letto della regina da dove si ebbe gran pena a farlo venir fuori.

La regina morta fu assai peggio: ‑ Se Ferdinando VI fosse stato come suo cugino Luigi XV uomo da avere in un canto del suo castello d'Aranjuez un Parco al Cervo diretto da una Madama di Pompadour qualunque, egli avrebbe potuto guarire o morire almeno più piacevolmente, ma il ramo cadetto di Luigi XIV non aveva più per se stesso l'indulgenza del ramo primogenito.

L'astinenza rese furioso un pazzo codardo : ‑ fu d'uopo condurlo a Casa di Campo, e nell'arrivarvi egli si aggrappò con una tale violenza ad un gentiluomo di servizio che questi cadde bocconi col re sopra di lui.

A forza gli venne strappato il povero gentiluomo dalle mani ; il re lo strangolava ed egli non osava difendersi per tema di ledere all'etichetta.

Allora il re continuò solo la sua passeggiata, ma una volta rientrato rifiutò ostinatamente qualunque cibo il digiuno durò otto giorni.

La settimana seguente in vece egli mangiò come un vero Borbone, cioè a dire smisuratamente.

Ma un'altra follia gli era corsa alla testa ‑ quella di non voler rendere nulla di quanto mangiava.

Per ottenere questo risultato egli si sedeva sui pomel­li puntuti delle sedie e delle poltrone che trovavansi nella sua camera e se ne serviva come turaccioli.

In capo a tre mesi queste continue intermittenze di digiuno e di ghiottoneria lo condussero alla morte ‑ ed egli preferì rendere l'anima piuttosto che qualunque altra cosa.

Ed era a questo principe imbecille che lasciava il suo regno in uno stato di disordine facile a comprendersi, dopo due anni di follie così singolari, che il re Carlo III era chiamato a succedere.

Il re Carlo III non rischiava di morire senza posterità come suo fratello, egli aveva sei maschi e due ragazze.

Disgraziatamente suo figlio maggiore dell'età di dodici anni era compiutamente imbecille ed incapace di regnare.

Il secondo ‑ Carlo Antonio diveniva l'erede presuntivo della corona di Spagna.

Il terzo, Ferdinando, trovavasi per conseguenza chiamato a sostituire suo padre sul trono delle due Sicilie.

Egli non aveva che otto anni.

Era d'uopo però cominciare col far provare l'imbecillità del principe Filippo.

Il re riunì i più gran signori del Regno, i Magistrati i più eminenti, i più dotti medici di Napoli, i ministri, gli ambasciatori stranieri, e l'imbecillità dell'erede presuntivo alla corona fu solennemente riconosciuta.

Gli è forse per questo motivo che si tenne nascosta più che fosse possibile la follia dello zio ‑ si credeva forse che due idioti nella stessa famiglia facessero mal giudicare del resto.

Il 6 ottobre 1759, il re Carlo III circondato dalla sua famiglia, in presenza degli ambasciatori stranieri, degli uomini di Stato doventi comporre la reggenza, dei ministri, degli Eletti della Città e dei principali baroni, fece leggere l'atto che toglieva la corona a suo figlio maggiore, rimetteva quella di Spagna al suo secondo figlio e quella delle due Sicilie al suo terzo.

Quest'atto che noi non crediamo, malgrado la sua saviezza, di dover riportare per intiero, terminava con queste parole :

« lo raccomando umilmente a Dio il detto Infante Don Ferdinando che lascio regnare a Napoli dandogli la mia paterna benedizione, ed incaricandolo della difesa della religione cattolica, raccomandandogli la giustizia, la vigilanza, la clemenza, e l'amore dei popoli i quali avendomi fedelmente servito ed obbedito hanno diritto alla benevolenza della mia casa reale, io cedo ugualmente, trasporto e dò, al detto Infante Don Ferdinando mio terzo figlio il regno delle due Sicilie e tutti i miei altri stati, beni, ragioni, diritti, titoli ed azioni ; gliene faccio in questo momento la più ampia cessione e traslazione di maniera che non ne resti alcuna parte; nè alcuna sovranità, sia per me, sia per i miei successori i Re di Spagna ‑ fuori i casi sopra enunciati: ‑ in ragione di che, dall'istante in cui lascierò questa Capitale, Egli potrà mediante il suo Consiglio di reggenza, amministrare indipendentemente da chicchessia tutto quanto io gli ho rimesso, ceduto e dato io spero che quest'atto di emancipazione, costituzione d'età minore, destinazione di tutela e cura di Re pupillo e minore nell'autorità dei detti stati e beni italiani di cessione e donazione avrà luogo per il bene dei popoli, per quello della mia famiglia Reale e finalmente contribuirà non solo al riposo dell'Italia, ma a quello dell'Europa. Il presente istrumento sarà firmato da me e da mio figlio Don Ferdinando, munito dal sigillo e registrato dai consiglieri e segretari dello stato anche in qualità di Reggente tutore del detto Infante Don Ferdinando.

Fatto a Napoli il 6 ottobre 1759 ».

Questa lettura finita il Re si voltò verso suo figlio lo benedisse, gli ordinò di amare i suoi sudditi, gli raccomandò di esser fedele alla religione, giusto e clemente ‑ e togliendo dalla sua cintura quella stessa spada che Luigi XIV aveva data a Filippo V mandandolo in Ispagna e che Filippo V gli aveva data mandandolo a Napoli.

‑ Maestà, gli disse, prendi questa spada e conservala per la difesa della religione e del tuo popolo.

Da questo momento Ferdinando era re, poichè era stato salutato da suo padre stesso col titolo di Maestà.

Lo stesso giorno il re Carlo III così impazientemente aspettato in Ispagna, così profondamente compianto a Napoli, s'imbarcò al tramonto del Sole colla Regina, le due principesse e i suoi quattro figli: ‑ sedici vascelli di linea ed altrettanti di fregata gli davano una scorta veramente reale.

Egli lasciava l'amministrazione in uno stato brillante, le finanze prospere ‑ non portava con sé nulla di quanto apparteneva alla Sovranità di Napoli, nè gioielli, nè diamanti, nemmeno quel piccolo anello d'oro trovato da lui stesso a Pompei ch'egli consegnò al ministro come proprietà dello stato, e che si fa ancora vedere agli stranieri come la prova d'una delicatezza reale che i successori di Carlo III non presero sempre ad esempio.

L'intiero popolo di Napoli il quale ne' suoi cupi presentimenti credeva di veder partire col re Carlo III il buon genio del regno, s'era recato su tutti i punti del Golfo da dove potesse seguire lungamente cogli occhi lo unico principe, che gli avesse dato 24 anni di pace e di felicità in seguito a due secoli di rivoluzioni e di guerre.

E per la prima volta forse la partenza d'un re lasciando i suoi Stati per non più ritornarvi, fu dal primo fino all'ultimo di suoi sudditi calcolata come una calamità pubblica.

Gli è che difatti col primo Borbone un'era nuova era cominciata per Napoli.

Colonia di Cuma sotto il nome di Neapolis la nuova città, passò in potere dei Romani 327 anni prima di Gesù Cristo ‑ ma si conservò però sempre una città greca : schiava Regina di questo popolo che poco a poco rinnegava l'austerità e la lingua de' suoi avi per i costumi di Alcibiade e la lingua di Periele

 

. . . . omnia graece cum sit nobis turpe magis nescire latine

 

essa si vide allora la favorita di quanto vi era di grande, di voluttuoso e di potente : ‑ Scipione esiliato davagli delle ossa di cui diseredeva Roma ‑ Silla vi morì per scelta ‑ Tiberio per caso ‑ Lucullo vi costrusse tre campagne ‑ Cicerone vi scrisse le sue quistioni accademiche ‑Cornelia, la madre spartana, vi raccontò agli stranieri la morte dei suoi figli ‑ Properzio e Orazio la cantarono Caligola ne fece il teatro delle sue gigantesce follie Nerone vi chiese umilmente il premio, e quando furono sepolte le due città che dovea dissotterrare Carlo III, Trajano vi giunse come un Dio consolatore per portare agli afflitti la sua elemosina imperiale.

 

Questa fu la sua epoca favolosa ‑ la sua età d'oro la sua età di Sirena: ‑ Partenope era ancora regina di Neapolis.

Poi venne la sua età di bronzo.

Belisario la prese d'assalto sopra i Goti e la predò

Totila la riprese sopra Belisario ‑ l'impero Greco la riprese sugli Ostrogoti e la conservò fino a quando i Longobardi ebbero conquistato l'Italia.

Allora in un corto periodo di tranquillità inatteso e d'autonomia quasi dimenticata essa formò il Ducato di Napoli che confinava col Ducato di Roma e col Ducato di Calabria, durante due secoli essa s'ingrandì, divenne una repubblica, quasi sovrana, e dopo aver avuto l'età di bronzo ebbe l'età d'argento.

Il normanno Ruggiero le portò l'età di ferro.

Allora cominciò per essa il lungo seguito di guerre fre le case d'Angiò e di Svevia onde possederla, il suo gran dramma di Manfredi, la lamentevole tragedia di Corradino, allora vengono il regno di Roberto il saggio ‑ i regni delle sue regine impudiche e de'suoi selvaggi Ungheresi ‑ il suo trono è messo all'incanto da Roma: ‑ vi ha un momento in cui essa lo offre inutilmente a tutte le ambizioni disponibili ‑ a Roberto di Cornovaglia ‑ a Edmondo figlio di Enrico III d'Inghilterra ‑ a Carlo d'Angiò fratello di S. Luigi.

Dopo gli Angioini vengono gli Aragonesi ‑ Dopo Alfonso Ferdinando il crudele ‑ quindi le nostre guerre, il nostro brutale Carlo VIII che tanto spaventò il papa Borgia passando a Roma ‑ Lautrec ‑ Masaniello, il nostro Duca di Guisa ‑ figure da romanzo piuttosto che da storia e che diedero del pittoresco, ma non della felicità alla città degli imperatori e dei re divenuta la città dei lazzaroni.

Ferdinando il Cattolico trasformando il regno in provincia gli aveva dato l'ultimo colpo dei vicerè: ‑ divenuta satellite in vece d'essere pianeta, Napoli perdette tutta la sua importanza.

Carlo III le aveva reso questa perduta importanza, Carlo III le aveva dato questa pace sconosciuta : ‑ avvezza allo spergiuro, al furto, alla dissolutezza, agli omicidi, essa aveva veduto trascorrere un intiero periodo, senza che vi fosse questione, nè degli spergiuri di Carlo d'Angiò, nè dei saccheggi di Manfredi, nè del palco di Corradino, nè del laccio di Andrea, nè nelle scuri di Sergianni Caracciolo ‑ i suoi antichi oppressori, i Baroni, erano stati indeboliti ‑ la sua vecchia nemica, era stata umiliata ‑ finalmente la sua mollezza greca era risorta carezzata dalla mano del ministro toscano, il quale allontanava da lei la vista delle armi colla stessa cura, con cui le allontanavano dalla vista di Achille alla corte della figlia del re di Sciro.

Questa effeminatezza di costumi, crudele nell'avven re, era dolce nel presente.

Ed era a tutte queste particolarità, che noi abbiamo raccontate e che risultavano dal confronto dei tempi passati col periodo appena trascorso, che Carlo III doveva questo compianto universale giustificato poi dal suo successore.

 

 

 

 

 

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