I  BORBONI  DI  NAPOLI

 

Di Alexandre Dumas

 

Libro III 

 

 

CAPITOLO XI

 

Il Cardinale unì alla sua artiglieria i quattro cannoni presi dai Sanfedisti a Cotrone; il Consigliere de Fiore rimase nella città con una commissione straordinaria, e mentre che il Cardinale rimettevasi in cammino col suo esercito presso a poco riformato, egli condannò a morte quattro Patriotti, che dopo tre giorni di Cappella, furono fucilati.

Molti altri furono condannati, chi alle galere, chi a pagar la multa; altri infine ad un tempo più o meno lungo di anni di reclusione ed esercizi spirituali, presso i Padri missionarii di Stilo e di Mesuraca.

Il cinque aprile, il giorno stesso in cui Troubridge e Macdonald scambiarono le lettere che ora si sono lette, il Cardinale passò a guado il fiume Neto, che in quel tempo serviva di limite fra le due Calabrie.

Il sei, il Prelato fu per esser vittima di un incidente; il suo cavallo s'impennò, e stramazzando al suolo, vi rimase morto, a non altro male gliene toccò, se non che il dispiacere di aver perduto un eccellente cavallo che aveva servito da stallone alla razza rinomata del Duca di Baranello.

Il Cardinale continuando il suo cammino, giunse inatteso a Cariati, ove fu mirabilmente ricevuto dal Vescovo D. Antonio Felice D'Alessandria.

A Cariati fu raggiunto da mastro Panedigrano coi suoi mille forzati; questo rinforzo, cagionò dapprima un poco di trambusto nell'esercito; dappoichè la maggior parte di quei briganti, essendo Calabresi, consumarono il tempo a private vendette.

Il Cardinale che vide subito il risultato di un simile brigantaggio, fece fare alto al suo esercito; fece circondare i mille forzati, da un corpo di cavalleria e dai campieri baronali, poi a furia di minaccie e di promesse, pervenne, come abbiamo visto, ad organizzarli e una volta che li ebbe organizzati , se ne sbarazzò in favore di Monsignor Ludovici.

Calmatosi il trambusto, l'esercito continuò la marcia ed entrò senza resistenza a Cosenza, capoluogo della Calabria Citeriore.

Il Cardinale vi stabilì, come preside, il vescovo di Cariati, Monsignor D'Alessandria.

Il domani, 15 aprile, siccome il cardinale traversava il bosco di Ritorto Grande, vicino Tarsia, e che per combinazione aveva scambiato il suo cavallo arabo bianco, che cavalcava abitualmente dopo la morte del suo stallone, con un altro di colore oscuro, un prete che era montato sopra un cavallo bianco e che marciava coll'avanguardia, servì di punto mira ad una viva fucilata che uccise il suo cavallo, senza ferire il cavaliere.

La voce che erasi tirato sul cardinale, ed il prete effettivamente era stato preso per lui; si sparse ben tosto fra i cavalieri, cui una ventina si slanciarono sulle orme degli assassini ; dodici di costoro furono presi, fra cui quattro si trovarono gravemente feriti.

Due furono fucilati, gli altri condannati ad una prigionia perpetua, nel fosso di Marittimo.

L'esercito si fermò per due giorni dopo aver attraversato il piano della antica Sibari, oggi maremma infesta, nella Buffaloria del duca di Cassano.

Giunto colà, esso componeasi di dieci battaglioni completi di cinquecento uomini ognuno, tratti dallo antico esercito sbandato: erano tutti armati di fucili di munizione e di sacchi, ma un certo numero di fucili, era senza bajonetta.

La cavalleria consisteva in mille e due cento cavalli; i cavalieri erano più numerosi, ma mancavano di montatura.

Oltre a questi corpi eranvi due squadroni di campagna, composti di Bargelli, cioè di genti della prevostale, se ciò può così dirsi, e di campieri: e tal corpo era il meglio equipaggiato, il meglio vestito e il meglio armato.

L'artiglieria consisteva in undici cannoni di differente calibro e in due obici.

Le truppe irregolari, cioè quelle che chiamavansi le masse, ammontavano a dieci mila uomini; esse formavano cento compagnie, ognuna di cento uomini; erano armate alla calabrese, cioè di fucili, di pistole, di baionette e di stili; ogni uomo portava seco una di quelle enormi cartucciere chiamata patroncina, piena di cartuccie e di palle: queste cartucciere che avevano presso a poco tre palmi di altezza, coprivano tutta la pancia, e formavano una specie di corazza.

In fine, eravi un ultimo corpo di truppe che chiamavansi le truppe regolari, perchè desse si componevano in effetti di avanzi dell'antico esercito ; ma questo corpo non si era potuto armare, per mancanza di denaro: esso si armò perciò alla meglio, e faceva numero.

Inoltrandosi verso Matera, dopo aver valicato il fiume Acri, il Cardinale intese raccontare le prodezze di un certo Principe ereditario, che aveva messa sossopra la terra di Bari.

Il cardinale Ruffo conosceva abbastanza il suo duca di Calabria, per credere che fosse monsignor Francesco, che si levasse questa fantasia; ma non eravi mezzo di dire il contrario alle genti del paese attraverso al quale si avanza. Risolvette quindi di trar partito della popolarità del falso Principe, e qualunque esso fosse, gli ordinò di venirlo a raggiungere, dandogli convegno sotto le mura di Altamura.

In questo frattempo, il cardinale ebbe noto che il cavaliere Micheroux, che abbiam già visto ricomparire due o tre volte sulla scena, e che era plenipotenziario del Re presso l'esercito russo, facevasi sbarcare sulla spiaggia dell'Adriatico, e facea circolare il seguente proclama del Re.

 

« FERDINANDO IV

 

Per la grazia di Dio, Re delle due Sicilie, di Gerusalemme ecc. ecc. Infante di Spagna, duca di Parma, di Piacenza, Castro ecc. Gran principe ereditario di Toscana ecc. ecc.

 

« Ai governatori militari e politici e a tutti gli abitanti della Puglia e di Lecce.

 

« Cari e fedeli sudditi

 

« Ho ricevuto colla più grande gioia la notizia che quasi tutte le città della Puglia, essendo insorte contro i progetti di pochi vili ribelli, hanno rovesciato gli emblemi di una libertà menzogniera e funesta, e, manifestando i più affettuosi sentimenti verso la Mia persona, hanno concepito niente meno che il coraggioso progetto di difendere la religione, i dritti del trono, l'indipendenza della nazione intera.

« Mentre che il mio cuore paterno gemeva profondamente su voi, una parte del mio regno divenuto per opera di pochi cattivi la sede della irreligione della immoralità, e dei più deplorabili disordini, niente al mondo non poteva certamente essermi più gradevole che il ricevere le convincenti pruove della vostra costante lealtà e del vostro sincero attaccamento. Nel mio desiderio di corrispondere colla più grande sensibilità, a questi segni moltiplici di fedeltà, di cui le vostre città mi hanno dato così grandi prove, mi affretto a dirvi che il momento non è lontano, in cui coll'aiuto di Dio, mi sarà dato di raccogliere il più dolce frutto della vostra generosa e memorabile costanza. Già le flotte guerriere di cui gl'illustri Capitani ridussero la formidabile fortezza di Corfù, accorreranno a stendervi una mano fraterna e soccorrevole, pronti a difendervi contro qualunque aggressore.

« Bentosto le potenze a me alleate svilupperanno in tutta la loro estensione le proprie forze irresistibili. Vedrete i difensori sorgere da ogni lato e forse l'Italia tutta sarà liberata dal giogo di ferro dei suoi oppressori, prima ancora che questi potessero compiere i loro temerari progetti d'invadere il vostro territorio.

« A questo scopo è necessario, Cari e fedeli sudditi, che stabiliste fra voi la vera concordia, l'unanimità delle intenzioni, la perfetta armonia di tutte le classi, ed il buon ordine; o io m'inganno o voglio credere che alla voce di un padre pieno d'amore, le poche vostre città che si mantengono ancora ribelli, apriranno le loro porte, desiderose di eguagliare in fedeltà le città circonvicine. Mi piace egualmente di sperare che quelli fra voi che si son lasciati traviare e si sono separati da voi, aspirano in questo momento, ad espiare la loro condotta passata e a giurare nuovamente la fede che devono al loro legittimo sovrano. A questo patto un tenero movimento m'invita sempre ad usare la clemenza che permetteranno le circostanze. Son sicuro, Cari e fedeli sudditi, che voi imiterete il mio esempio, che abbraccerete anche voi i vostri fratelli pentiti e che allora tutte le volontà, tutti i mezzi tutto il vostro lavoro e tutti i vostri sforzi, si volgeranno unicamente al grande oggetto della difesa comune.

« Confidando quindi al mio ministro plenipotenziario, il Cavaliere D. Antonio Micheroux, di farvi conoscere le mie amorose intenzioni a vostro riguardo, implorando dal cielo la felicità e la gioia nello interno delle vostre mura, la vittoria e il trionfo su chiunque osasse dichiararsi vostro nemico, mi dico con tenera affezione.

 

« FERDINANDO B. »

 

« Palermo 31 Marzo 1799.

 

Cosi, Ferdinando scoccava i primi strali della sua ingratitudine verso Ruffo, non permettendogli di continuar solo, l'opera con tanto prodigio cominciata da lui; come fa ognuno che interviene per la prima volta in un affare cominciato da un altro, Micheroux volle, affinchè il suo nome giungesse al Re in modo più favorevole di quanto lo fosse stato fino allora, farla immediatamente da padrone.

Per conseguenza, in vista di quella lettera, s'investì di autorità superiore, e si mise a distruggere e a perseguitare le autorità recentemente istallate nelle Puglie dal vicario generale del Regno, e cominciò da uno degli ultimi nominati, dal Preside di Lecce, D. Francesco Lopresto.

I capi delle truppe Calabresi, mormoravano dicendo, che avendo fatto più dei Pugliesi si maravigliavano come a quelli e non ad essi si rivolgessero le ricompense e le tenere parole.

Il Cardinale, da parte sua, non poteva comprendere come le care di mettere ad effetto le intenzioni del Re, nelle Puglie, fossero state affidate a Micheroux che era allora a Corfù, e non a lui, Vicario Generale del Regno, che rattrovavasi sopra luogo. Le circostanze delle città insorte della Puglia, rapportavansi effettivamente al mese di decembre 1798, cioè ad un'epoca in cui Ruffo non aveva fatto niente ancora; ma in questa epoca Micheroux non aveva fatto che fuggire dinanzi alle armate francesi, e la lettera del Re era in data del 31 marzo 1799 cioè, proprio del momento in cui arrivava a Palermo la notizia che l'esercito del Cardinale, era in procinto di assediar Crotone e allorquando si sapeva che il Cardinale e il suo esercito erano alle frontiere della Puglia. Ora, non potevasi supporre che il Cavalier Micheroux, francese, ed ignoto alle popolazioni, potesse arrecare un grande aiuto al Cardinale, mentre che all'opposto egli poteva togliere una gran gloria. Surse perciò al Cardinale l'idea, che la lettera era diretta a lui e che per lui era stata scritta, ma che alla stamperia si era sostituito, al suo il nome di Micheroux.

Ora, siccome le operazioni del Cavaliere Micheroux tendevano a porre in dubbio la legittimità della spedizione del Cardinale e la sua autorità, come Vicario generale, così egli prese subito le seguenti misure.

Ordinò, come Vicario Generale del Regno, che le autorità stabilite da lui, destituite da Micheroux, riprendessero all'istante le loro funzioni, e perseguitassero, come perturbatori dell'ordine pubblico, e nemici del Re, coloro che oserebbero elevarsi contro le disposizioni emesse da lui; scrisse al Cavaliere Micheroux che, peraltro, erasi già rimbarcato, che si guardasse bene, sotto qualsiasi pretesto d'immischiarsi, in avvenire, degli affari che appartenevano a lui, imperocchè, aveva in una volta il potere e la volontà di far rispettare la sua carica di Vicario Generale del Regno.

Micheroux fece le sue scuse e promise di non più incaricarsi di quanto particolarmente riguardava il Cardinal.

Questi proseguí adunque la sua marcia senza ostacoli, e pervenne a Matera, Capo luogo della Basilicata, nella giornata dell'otto maggio.

Colà fu raggiunto da De Cesari, che gli arrecava gli avanzi della sua antica potenza, cioè, ottanta uomini a cavallo che scortavano una colombrina del calibro di trentatre, un mortaio da bombe e due cassoni di munizioni.

Il Cardinale che non aveva più alcuno interesse, che il falso Principe di Sassonia continuasse la sua parte d'impostore, lo salutò col _suo vero nome di De Cesari, e gli conferì il grado di Generale della quinta e sesta divisione, che non esistevano affatto.

Di rimpetto alla Città di Matera, camminando verso il Nord, sorge la città d'Altamura; il suo nome è signi­ficante e le deriva dalle sue mura alte ; la sua popola­zione ordinaria è di 24,000, abitanti; ma erasi accre­sciuta di molti patriotti fuggiaschi della Basilicata e della Puglia; e, siccome Altamura era considerata come il baluardo più possente della repubblica napoletana, così, il governo vi mandò due squadroni di Cavalleria, il ‑ Generale Mastrangelo di Montalbano, e Nicola Pa­lumbo d'Avigliano, uno dei primi che col fratello, ave­vano abbracciato la parte francese, tirando sui lazzaroni dalle finestre della loro casa alla Pigna Secca‑ ma be­nanco fra i primi che diedero l'esempio della discordia e della invidia, accusando Rotondo.

Egli aveva ai suoi ordini settecento uomini d'Avigliano e col concorso del suo collega, aveva rinforzata Altamura di un certo numero di pezzi di artiglieria, e sopra tutto di una quantità di spingarde che furono situate sulle mura e sui campanili delle Chiese.

Nel mattino del 7, il Cardinale spedì ad Altamura un ufficiale, chiamato Raffaele Vecchione, col titolo di plenipotenziario, onde proporre a Mastrangelo e a Palomba delle buone condizioni per la redizione della piazza: egli reclamava inoltre, i suoi due ingegneri Vinci e Olivieri che erano stati presi la vigilia.

Il Parlamentario non ritornò.

Nella sera dell'8 maggio, il Cardinale ordinò che il Comandante De Cesari e il brigadiere de Settis partissero durante la notte, con quanto eravi di milizie di linea e una porzione di truppe irregolari, per mettere il blocco innanzi ad Altamura, ordinando loro d'aspettare il suo arrivo pria d'intraprendere cosa alcuna.

Tutto il rimanente delle truppe irregolari e una moltitudine di volontarii accorsi dai paesi vicini, vedendo partire le divisioni di De Cesari e di de Settis e credendo che si saccheggiasse Altamura senza di essi, marciarono al seguito di quelle due divisioni in modo che il Cardinale restò abbandonato con la sola sua guardia di 200 uomini e un picchetto di Cavalleria, nel Palazzo del Duca di Candida, che abitava a Matera.

A mezza strada da Altamura, De Cesari ricevette l'ordine dal Cardinale di condursi immediatamente con tutta la cavalleria, sul territorio vicino a La Terza, nello scopo di fermare certi ribelli che avevano messa in rivoluzione tutta la popolazione, di modo che tutti i contadini rimasti fedeli erano stati costretti a salvarsi nelle campagne.

De Cesari obbedì subito e lasciò il Comando dei suoi uomini al suo luogotenente, Vincenzo Durante, che proseguì il cammino; poi, all'ora convenuta, fece far alto alla truppa alla Taverna di Canito.

Colà gli si condusse un uomo della campagna che egli prese dapprima per una spia dei repubblicani, ma che in sostanza non era che un povero diavolo fuggitosi dalla sua masseria, e che la mattina stessa era stato fatto prigione da una mano di Altamurani. Egli raccontò allora al luogotenente Vincenzo Durante, che aveva visto duecento patriotti, gli uni a piedi, gli altri a cavallo, i quali prendevano la via che conduce a Matera; ma che dessi eransi fermati nei dintorni di una piccola collina vicino alla strada maestra.

Il Luogotenente Durante pensò allora con ragione che questa imboscata aveva per oggetto di sorprendere i suoi uomini nel disordine della marcia, e di toglier loro l'artiglieria e particolarmente il solo mortaio che possedeva l'esercito Sanfedista e che era a giusto titolo il terrore delle città circonvicine.

Il Luogotenente, in assenza del suo Capo, esitava sul da farsi; quando un uomo a cavallo, spedito dal Capitano Comandante l'avanguardia, venne ad annunziargli che questa avanguardia era alle mani coi Patriotti, laonde accorresse in suo soccorso. Il Capitano Rusciano che facea passare questo avviso era stato spedito dal Cardinale, con cinquanta Cavalieri, onde proteggere l'artiglieria.

Egli ordinò allora a tutti i suoi di camminare innanzi, e giunse in presenza dei repubblicani che, evitando i terreni sui quali avrebbero dovuto sostenere l'attacco della cavalleria Calabrese, seguivano i più difficili sentieri della montagna, per scagliarsi alle spalle dei Sanfedisti.

Questi presero subito posizione sulle sommità di una montagna, ove tutta l'artiglieria fu messa in batteria.

Come si vede era molto onore che facevasi a duecento uomini.

Nello stesso tempo il Capitano che comandava la cavalleria Calabrese, gettò un centinaio di montanari da bersaglieri, onde attaccare di fronte gli Altamurani, mentre che con la sua cavalleria, toglierebbe ad essi la ritirata verso la città. La piccola truppa che sarebbe stata importante, quante volte il suo progetto rimanesse ignorato, vedendosi scoverta si mise in ritirata e rientrò in città.

L'esercito Sanfedista si trovò quindi libero di proseguire il suo cammino.

Verso le nove di sera, De Cesari ritornò colla sua cavalleria.

Dal suo canto, il Cardinale aveva raggiunto l'esercito; fuvvi una lunga conferenza fra i differenti Capi, in seguito della quale si decise che si attaccherebbe Altamura senza alcun ritardo.

Nel medesimo istante si presero tutte le disposizioni, per rimettersi in marcia e si convenne che de Cesari partirebbe pria di giorno.

Il movimento fu eseguito e, alle nove del mattino, egli si trovò a portata di cannone d'Altamura.

Un'ora dopo il Cardinale lo aveva raggiunto.

Gli Altamurani avevano formato un campo fuori le mura, sulle colline che circondano la città.

Il Cardinale, per riconoscere su qual punto doveva condursi l'attacco, risolvette fare il giro della città. Egli cavalcava il noto suo cavallo bianco, arabo, che aveva per il terzo confiscato ad Acton, allorquando il suo stallone, fu, come raccontammo, colpito da una furia di sangue. Peraltro, il suo costume lo designava ai colpi.

Esso fu adunque riconosciuto dai patriotti e all'istante divenne un punto di mira per tutti quelli che possedevano un fucile di lungo tiro, di modo che le palle cominciarono a piovere intorno di lui.

Allora il Cardinale si fermò, e mise il binocolo al suo occhio, e colla mano fece cenno a quelli che lo circondavano di ritirarsi, dicendo loro.

‑ Scostatevi! sarei molto dolente se qualcheduno di voi fosse ferito.

E siccome uno dei suoi ufficiali, ricusavasi di ritirarsi dicendogli.

‑ E voi, monsignore?

‑ Oh! io, rispose egli ridendo, le palle non possono nulla contro di me.

Ed in fatti correa voce fra i Calabresi che il Cardinale aveva un incantesimo contro le palle, ed a lui non dispiaceva che tal voce si accreditasse.

Il risultato di quella investigazione fu che i cannoni della città dominavano tutti i sentieri che conducevano alle mura e che questi sentieri erano inoltre otturati da barricate di pietre.

Bisognò risolvere d'impadronirsi di una delle alture che dominavano Altamura, e che erano, come dicemmo guardate dai Patriotti.

Dopo un combattimento accanito, la cavalleria Leccese s'impadronì di una di queste alture, sulla quale subito vi fu stabilita la colombrina e il mortaio che furono puntati, la colombrina sulle mura, il mortaio sugli edifizii interni. Due altre batterie composte di piccoli pezzi, furono stabilite su due altri punti ; solo però, atteso il piccolo calibro di questi altri cannoni, essi erano più molesti che efficaci.

Ma malgrado il triplice fuoco delle batterie, gli Altamurani non Solo non si perdettero di coraggio, ma si si difesero benanco vigorosamente. Le case cadevano rovinate e incendiate dagli obici, ma come se i padri e i mariti potessero dimenticare i pericoli dei loro figli e delle loro mogli, come se dessi non sentissero il grido dei morenti chiamarli in loro soccorso, restavano al loro posto, respingendo gli attacchi, e mettendo in fuga, in una sortita, le migliori truppe dell'esercito Sanfedista, cioè i Calabresi.

De Cesari accorse con la sua cavalleria, e sostenne la ritirata.

La notte sopraggiunse e sospese il combattimento.

Ma verso le cinque o le sei della sera, il Cardinale si accorse, che alla mitraglia degli Altamurani cominciava a mischiarsi della moneta di rame; poi, che alcuni colpi di cannone, erano interamente caricati di quei proiettili; in fine che un soldato era stato ferito con un moneta d'argento, egli ne dedusse che se non la polvere, almeno i proiettili, erano esauriti e che gli assediati non potevano più fare una lunga resistenza.

« Ma finalmente, dice lo storico del Cardinale, s'intese un gran fuoco di fucileria che partendo da un sol punto, non fu continuato. »

Allora riflettendo che i Patrioti, se si chiudeva loro ogni mezzo di ritirata, amerebbero meglio seppellirsi sotto le rovine delle mura, anzichè arrendersi, il Cardinale fingendo di riunire le sue truppe sopra un tal punto, fece sgombrare una delle parti della città, quella che chiamasi la porta di Napoli.

Ed in effetti, Nicola Palumbo e il generale Mastrangelo, profittarono di questo mezzo di ritirata che veniva loro offerto e lasciarono Altamura durante la notte.

Di tanto in tanto il brigadiere gettava una bomba nell'interno della Città, affinchè vegliasse nell'idea del pericolo che l'aspettava il domani.

Dentro Altamura regnava un misterioso e triste silenzio. Una pattuglia di Cacciatori azzardò verso la mezzanotte di avvicinarsi alla porta di Matera e vedutola senza difesa, formò il progetto d'incendiarla. In conseguenza vi trasportò quietamente una quantità di materiale combustibile e di fascine, vi appiccò il fuoco, e la porta già traforata dalle palle della colombrina, si ridusse in cenere senza che alcuno fosse accorso di quei della piazza.

Si recò questa notizia al prelato, il quale ordinò che nessuno entrasse in Altamura, potendo quella solitudine essere apparente, e quel silenzio un agguato.

Inoltre fece cessare il fuoco del mortaio per non finire di rovinare la città.

Il Venerdì, 10 maggio, pria che spuntasse il giorno, il Cardinale ordinò al campo di porsi in movimento, e disposta l'armata in battaglia, la fece avanzare, verso la porta bruciata , non vedevasi alcuno, e nessun rumore rompeva il silenzio. Fece gettare due bombe e alcune granate nella città, aspettandosi che qualcheduno ne uscisse : ma nulla si vide. Finalmente surse il sole su quella stessa solitudine e quello stesso silenzio simbolo della morte; ordinò a tre compagnie di Cacciatori di entrare per la porta arsa, d'impadronirsene, e di passare oltre per vedere ciò che avveniva.

Fu grande la sorpresa nello accorgersi, che nella città erano rimasti solo gli esseri troppo deboli per poter fuggire: i vecchi, gli ammalati, i fanciulli, e un monastero di giovanette.

In questo punto tutti gli storici Sanfedisti, si accordano in una cosa che Colletta non dice, e che intanto, pare essere vera, pei minuti particolari che ne danno Sacchinelli, e Francesco Durante.

Ecco ciò che dice Sacchinelli :

« Le prime compagnie entrate in Altamura, andavano in cerca degl'ingegneri Vinci ed Olivieri e del Parlamentario Vecchioni. Sulla traccia di vivo sangue, fu trovato nella chiesa di S. Francesco, allora profanata, un cimiterio pieno di cadaveri, e di feriti moribondi realisti, i quali incatenati due e due furono barbaramente fucilati in frotta, dentro il refettorio di S. Francesco, la sera precedente, quando s'intese dal campo quel fuoco di fucileria. Disseppelliti all'istante, se ne trovarono alcuni ancora boccheggianti, che tosto spirarono i Tre non gravemente feriti, vennero curati e guariti perfettamente. E furono il P. Maestro Lomastro, ex.Provinciale dei Domenicani, che sopravvisse molti anni e mori di vecchiaia; Emanuele di Marzio di Matera, ed il parlamentario D. Raffaele Vecchione, il quale viveva ancora nel 1820, ed era impiegato nella segreteria della Guerra. »

Noi confessiamo che questi particolari ci sembrano incontrastabili. Come mai Colletta gli ignorava; egli Ministro della Guerra, avrebbe dovuto avere Vecchione sotto i suoi ordini, o pure conoscendoli non li ha menzionati.

Ecco, ora, ciò che dice sullo stesso fatto Vincenzo Durante:

« Costoro però, (Nicola Palomba e il Generale Mastrangelo) sempre eguali a sè stessi, e sempre barbari vollero prima di partire lasciare in Altamura l'ultimo, ma il più disumano esempio della lor crudeltà. Gemevano in quelle orride carceri, e carichi di pesanti catene, molti infelici, che altra colpa non avevano che d'essersi serbati fedeli al loro legittimo sovrano. Prima di partire il comandante Mastrangelo ed il Palomba, fecero sotto i loro occhi fucilare tutti quest'infelici e an­cora palpitanti e semivivi li fecero gettare in un orrida £ossa ! »

Ci sembra difficile che due scrittori inventassero simile cosa, quando un'intera città di 24,000 anime può smentirla.

Ciò non scusa, ma spiega, il sacco di Altamura.

Gli scrittori realisti confessano benanco che il saccheggio d'Altamura fu una cosa spaventevole.

« Chi può mai, dice Vincenzo Durante, cioè un soldato, e un soldato Sanfedista, chi può mai rammentare senza lacrime, la desolazione ed il lutto di questa città? chi può descrivere il saccheggio, che dovè soffrire dalla insaziabilità della militare cupidigia?

« La Calabria, la Basilicata e la Puglia, van tutte adorne delle ricche spoglie dei vinti di Altamura, ai quali non resta che la dolorosa rimembranza delle loro disgrazia e la libertà di piangere la loro meritata rovina. »

Fu mestieri accadesse una orribile azione, sotto gli occhi dello stesso Cardinale, per determinarlo a dar l'ordine di non più saccheggiare ed uccidere.

Si rattrovò un patriota, il Conte Filo, nascosto in una casa, fu condotto dinanzi al Cardinale, e, al momento in cui egli inchinavasi avanti di lui a mo' di supplicante, un uomo che dicevasi parente dell'ingegnere Olivieri, fucilato con i quarantotto realisti, si avvicinò al Conte Filo e gli tirò, a brucia‑pelo un colpo di fucile; il Conte Filo cadde morto ai piedi del Cardinale e il suo sangue spruzzò sulla veste del prelato.

Questa barbarie, avendo messo il colmo a tutti gli orrori che erano succeduti, il Cardinale credette esser tempo di ordinarne la fine : fece battere la generale e tutti gli ufficiali, e tutti i preti, ebbero ordine di percorrere la città e di far cessare il saccheggio, l'incendio, l'eccidio, e lo stupro, che duravano da tre giorni.

Ristabilitasi la calma, fu prima cura del Cardinale, di mandare al Re la felice nuova della presa della città di Altamura, di fare delle promozioni e dare ricompense.

Mentre egli vi si ferma quattordici giorni, occupato dalle proprie faccende, vediamo ciò che avveniva a Napoli, e l'effetto che ivi produssero le notizie della marcia trionfale del Cardinale.

 

 

 

 

 

MENU - Borboni di Napoli

Manda un messaggio