I  BORBONI  DI  NAPOLI

 

Di Alexandre Dumas

 

Libro III 

 

 

CAPITOLO XIV

 

Il domani di quella festa della Fraternità, in cui la Repubblica avea dato il grand'esempio del perdono, esempio che non fu seguito dai suoi avversari, siccome si sapeva che il Cardinale si avanzava senza incontrare nuove opposizioni Manthonet annunziò ch'egli si poneva alla testa dell'esercito e marciavagli incontro.

Vi era allora a Napoli un uomo fermo nell'eseguire, chiamato Matera; nato a Napoli, compromesso nel 1795, egli se n'era andato in esilio in Francia, e, come tanti altri, era tornato nella sua patria coi Francesi. Egli si presentò al Governo ed annunziò che avea da fare una comunicazione importante al Direttorio.

Fu introdotto e disse che il colonnello Mejean, quello stesso che Macdonald avea lasciato come comandante del forte, con guarnigione francese, offriva alla Repubblica un soccorso di mille Francesi, se essa volesse dargli 50,000 ducati (260,000 franchi circa).

Si fè osservare a Matera la penuria del Tesoro, che non poteva disporre di simile somma.

‑ Non sia questo d'ostacolo! rispose Matera; datemi pieni poteri sulla vita e sui beni di dodici realisti, e domani io pongo nelle vostre casse un mezzo milione. La metà sarà data al colonnello Mejean, per comprare i soccorsi che ci offre, l'altra metà servirà ai bisogni più urgenti. Riunisco allora tutti i soldati di cui possiamo disporre ; vi aggiungo i mille Francesi, marcio contro Ruffo, cioè, contro la sola forza seria, lo sconfiggo e disperdo il suo esercito. Battuto Ruffo, disperso il suo esercito, marciando contro le bande di Pronio, di Sciarpa, di Fra Diavolo e di Mammone, che non ci posson resistere, e la Repubblica è salvata.

La proposizione fu respinta con orrore dal Direttorio, che riguardava come delitto questa contribuzione forzata, imposta a dodici cittadini; e, con orgoglio, da Manthonet, che esclamò che non avea bisogno dei francesi per salvar Napoli, e che un solo repubblicano bastava a far fuggire dieci Sanfedisti.

Fu dunque stabilito che, senza prendere in considerazione la proposizione di Matera, che non era punto ammissibile, Manthonet marcerebbe contro Ruffo, Schipani, contro Sciarpa ; Spanò contro de Cesari; e Bassetti contro Mammone e Fra Diavolo.

L'indimani, Spanò e Schipani si misero in marcia; pochi giorni dopo, Bassetti partì per impadronirsi della strada di Capua; Manthonet prese quella della Puglia.

La Legione Calabrese rimase sola in città, perchè Napoli non fosse compiutamente priva di milizie, e perchè il governo Dotesse reprimere i

complotti realisti che, nell'assenza dell'esercito repubblicano, si sarebbero orditi

Probabilmente, per mantenere i nemici della repubblica in un salutare terrore, alcuni patrioti stabilirono allora una società, simile a quella de' Giacobini: essa avea per fondatore Antonio Salfo, gran partigiano di Robespierre; il luogo delle sedute della nuova Assemblea, era la sala dell'Accademia di Santa Lucia.

Dalla parte sua, il Corpo Legislativo operava. Egli s'era dapprima e sopratutto occupato dell'abolizione de' diritti feudali, ed avea esordito, col fare, contro i baroni una legge, tutta a vantaggio del, popolo. Questa legge dichiarava che, oltre la perdita di tutti i diritti e privilegi annessi alla feudalità, i proprietari doveano presentare i titoli di vendita dei boschi, delle difese, e dei pascoli comunali. Quest'ultimo privilegio era stato quasi sempre usurpato colla forza, a danno dei cittadini che vi avevano, in origine, gli stessi diritti dei baroni.

Nel caso in cui i titoli non fossero riconosciuti validi, questi beni doveano esser divisi fra i contadini de' luoghi ove eran posti, per ricompensarli delle perdite che avean sofferte per sì lungo tempo, e della tirannia che li avea sì lungamente oppressi.

Inoltre, qualunque processo esistente, fra i baroni e i loro contadini, erano, senza esame, giudicati in favore di questi ultimi « attesochè, diceva la legge, non era punto probabile che, sotto il governo regio, i contadini, avessero osato intentare un processo simile se non fossero stati nel loro diritto ».

Queste leggi furono adottate ad una grande maggioranza, sebbene la maggior parte di quelli che le votarono possedessero dei feudi.

Pignatelli di Monteleone ed il marchese Bruno di Foggia furono i soli che combatterono con forza questa legge.

La Società patriottica di S. Lucia, che non perdeva di vista le sedute della Camera napoletana, come la Società dei giacobini non perdeva di vista la Costituente o la Convenzione, fu indignata dall'opposizione che i due membri che abbiam nominati, avean fatta alla legge popolare, che era stata proclamata, ed accusò d'aristocrazia, la sera stessa, Pignatelli di Monteleone e Bruno di Foggia. Si giurò, prima di sciogliere la seduta, di uccidere i due rappresentanti, se non dassero la loro dimissione o se non fossero destituiti. Luigi Serio, poeta di qualche fama, avvocato di merito, quello stesso che avea servito di guida all'imperatore Giuseppe II, in occasione del suo viaggio a Napoli, e che dovea morir vittima del suo patriottismo, fu mandato, insieme con Vincenzo Rossi, dal presidente Salfo, per accusarli innanzi al Corpo Legislativo. Cinquecento membri del Club di S. Lucia, pronti ad eseguire la sentenza pronunziata contro i due aristocratici, se non fossero discacciati dalla Camera, seguivano i loro inviati.

Eglino giunsero nel momento in cui i membri del Corpo Legislativo stavano per separarsi; ma la deputazione intimò loro l'ordine di rimanere in seduta, finchè si fosse decisa la questione che li avea condotti colà.

La seduta fu tempestosa, e avrebbe ben potuto finire come quella del primo pratile, se i due deputati accusati non avesser dato da loro stessi la loro demissione, e non si fossero gittati nelle braccia de' loro accusatori.

Il ministro della marina, D'Oria, fè altrettanto, non volendo separarsi da due colleghi che amava e che stimava.

S'avvicinava la festa di S. Gennaro che è costume celebrar nel mese di maggio; in mezzo alle preoccupazioni politiche fu quella una preoccupazione religiosa, che in un dato momento fece metier da banda ogni altra faccenda; S. Gennaro sarebbe egli ancora repubblicano, ora che i francesi non eran più in Napoli, e che l'armata de' patrioti marciava contro al nemico?

Era questa la grave quistione che anche gli spiriti seri facevano a sè stessi con inquietudine.

Quel giorno, che scioglier dovea ogni dubbio sulle simpatie ed antipatie del santo, giunse finalmente. Il concorso delle genti fu piucchè mai numeroso alla processione, e le si fece tener dietro il Direttorio, il Corpo legislativo, i pubblici funzionari rivestiti dei loro uniformi, la cavalleria e la fanteria della guardia nazionale.

S. Gennaro restò fermo nella prima sua opinione; due minuti non trascorsero, ed il miracolo fu fatto; il protettore di Napoli era sempre giacobino.

In questi frangenti si seppe una cattiva notizia, alla quale ognuno doveva aspettarsi dietro gli antecedenti di colui, sul conto del quale essa correva.

Il bello Roccaromana, l'ultimo favorito di Carolina, quello il quale, di unito a Moliterno, era stato eletto a generale del popolo, il fratello di Nicolino Caracciolo, il bello Roccaromana, il quale era stato autorizzato a formare un corpo di cavalleria, era passato con quel suo corpo al servizio del Cardinale Ruffo che, in grazia di codesta diserzione, aveagli promesso il perdono dei di lui passati errori.

Tal notizia non recò maraviglia a nessuno; già da due mesi ci vivea ritirato nel suo palazzo di Pizzofalcone, così detto il Giardino, dove le alte piante e gli alberi fronzuti, dicevasi, celassero i suoi amori da Pascià ; ma coloro i quali avean violato il segreto di quelle piante, Ai quegli alberi, pretendevano che spesse volte quel giardino, era stato luogo di convegno di realisti, e che di continuo vi si era cospirato contro la Repubblica.

L'accaduto dava ragione agli accusatori.

Allora il giovane fratello di Roccaromana, quello stesso Nicolino Caracciolo che preso aveva Sant'Elmo, ed era rimasto divoto patriota, arrossendo per vergogna, chinato il capo, tremante la voce, venne al cospetto del Direttorio a dichiarare che era tale e tanto il delitto di suo fratello, che anche dovea esser scontato da uno innocente, ed a chiedere in qual prigione recar si dovesse perchè il Governo fosse certo della sua persona. Se, per lo incontro, la Repubblica gli serbasse la sua stima, ci proverebbe non esser più fratello a Roccaromana, ma figlio soltanto della Repubblica Partenopea, e quindi chiederebbe permesso per formare pur egli a sue proprie spese, un reggimento di cavalleria, col quale andrebbe contro il fratello a combattere.

Vivi applausi accolsero la richiesta del giovine patriota, e con entusiasmo gli fu dato l'occorrente permesso. Gli fu quindi accordato esser quello del suo fratello un delitto personale, da non mai recare a lui danno o disonore.

Nicolino Caracciolo formò un reggimento di Ussari e potette ancora prender parte alle ultime battaglie date dalla Repubblica.

Abbiam veduto dalle lettere di Troubridge in qual modo avea operato la flotta anglo‑sicula, annunziata da Ferdinando al Cardinal 'Ruffo: essa s'era impossessata delle Isole, vi aveva nominato governatori, e vedendo ch'era cosa urgente il procedere alle esecuzioni, per mezzo del suo comandante chiedeva un giudice.

Cotesto giudice, a nome Speciale, s'era posto all'istante all'opra, ed in Procida, avea incominciato col far impiccare un povero diavolo di sartore, il cui delitto era quello soltanto di aver cucito gli uniformi della Municipalità Repubblicana.

Del resto lo vedremo operare e lo stesso Troubridge ci darà la sua opinione sul conto di lui.

Il blocco della flotta anglo‑sicula avea spinto il governo repubblicano a vedere di ‑ristabilire la sua quasi distrutta Marina, e di ricostruirne una nuova, cogli avanzi sottratti all'incendio.

Il solo ufficiale di marina che avesse in Napoli un merito incontestato, si era Francesco Caracciolo, quello stesso il quale accompagnò a Palermo il Re, comandando egli la fregata la Minerva. Irritato del dispregio in cui era tenuto dalla Corte, lo abbiam veduto comparire un istante al cospetto del Cardinal Ruffo sulla spiaggia di Catona, con ambiguo congedo del Re Ferdinando.

Era nato il dì 18 gennaio del 1752 ; era perciò nel tempo di cui parliamo, un uomo in sui quarantasette anni; ma invecchiato alle dure fatiche dei mare, sembrava avesse toccato i sessanta.

Aspirante di marina sin dall'età di anni tredici, fedele solo all'amore del marinaio, era rimasto senza famiglia altra che quella de' suoi marinari che l'amavano come padre. Nel 1796 era capitano di fregata e combatteva a Tolone con la flotta anglo‑napoletana, e gli Inglesi, quantunque i più valenti in tal materia, aveano fatto l'elogio della sua, scienza e del suo coraggio. Nel ritornar che fece, fu nominato al posto di, Ammiraglio dal Re Ferdinando: ma, come abbiam veduto dalla poca fiducia che esternato gli avea, il Re lo avea sciolto da ogni dovere di riconoscenza.

Del resto, con questa frase scritta a piedi della domanda di congedo, di proprio pungo del Re: ACCORDATO, ma non DIMENTICHI il cavalier Caracciolo che Napoli sta in potere del nemico, ‑ ei si credeva libero da ogni giuramento.

Intanto Ruffo, facendogli notare la restrizione del Re, avea destato un dubbio nello spirito di lui. Laonde, al suo ritorno, Caracciolo era rimasto tanto ritirato, tanto passivo, quanto che gli fu possibile sopportare la sua parte di lavoro, ma soltanto per dovere di semplice cittadino.

Questo fatto così importante, poichè la difesa di Caracciolo trasse materia tutta da esso, cioè : che gli fa forza prendere servizio, ècostatato da una lettera del capitano Troubridge in data 9 aprile, diretta a Nelson, che conferma la realtà della scusa.

Ecco il frammento di questa lettera relativa a Caracciolo :

« Sento in questo punto che Caracciolo ha l'onore di  montare la guardia, come semplice soldato, e che ieri era in sentinella alla porta del Palazzo.

« Ha data la sua demissione. Io credo che obblighino tutti a servire. »

Una volta presa dal Governo repubblicano la risoluzione di creare di nuovo una flotta qualunque, venne fatta una doppia proposta a Francesco Caracciolo: quella d'essere Ministro della Marina, e di comandare come Ammiraglio, quei pochi bastimenti che come Ministro avrebbe potuto mettere in mare.

Caracciolo esitò un istante, ma tra la salvezza della patria ed il suo pericolo personale, da figlio devoto, si determinò per la patria. Da quel punto si pose all'opera con tutta l'attività del suo genio. Armò meglio che potè una dozzina di barche cannoniere, come pure i tre bastimenti salvati a Castellammare da Francesco de Simone, e riunendoli a quelli che fece costruire in fretta si trovò a capo di una trentina di piccoli bastimenti.

Ben presto lo vedremo impiegare coraggiosamente queste deboli risorse in un tentativo contro Ischia e Procida.

Abbiamo parlato della congiura Baker e del modo come era stata scoperta per mezzo della sventurata San Felice.

La scoperta di questa cospirazione avea risvegliato dei timori, e sebbene i principali capi fossero prigionieri si temette che il serpente non riunisse i pezzi sparsi e che l'Idra ritrovasse un nuovo capo.

Un frate francescano si consacrò a questa tenebrosa e schifosa missione, di fare l'agente provocatore e di assi.

curarsi così se i cospiratori arrestati avevano conservato dei complici.

Se siffatti complici esistevano, dovevano essere nascosti tra i marinari del piccolo porto, tutti conosciuti per borbonici, avendo Santa Lucia sempre ottenuto dal governo caduto privilegi particolari.

Un giorno adunque il padre Pisticci, era il nome del Francescano, si presentò in mezzo a loro, e domandò una barca per passeggiare in mare.

Non appena fu uscito dal porto, cominciò a lagnarsi, a sospirare, a levare gli occhi al cielo, e a deplorare lo stato in cui l'invasione dei francesi ed il governo dei giacobini avevano ridotta la religione, e l'avvilimento del popolo che, senza nemmeno tentare di vendicarsi, sopportava tante ingiurie.

I marinari l'ascoltavano con sorpresa e temevano qualche inganno.

‑ Padre, gli dissero, è pur mestieri cedere alla forza.

‑ Alla forza! esclamò il frate, e voi pure non siete forse la forza? vi manca forse il numero, le braccia e il coraggio? Oh! se potessi riunire solamente mille bravi avrei ben presto vendicato il mio Dio e il mio Re.

‑ Ma Padre, rispose uno dei marinai, questi mille bravi, perchè non li cercate nella vostra parrocchia e tra quelli che voi dirigete?

‑ Perchè non abbiamo armi, rispose il frate, perchè i Giacobini ce le hanno tutte tolte.

Uno dei marinai pose la mano sulla spalla del frate.

‑ Se non vi mancano che le armi, disse, ne troverete.

‑ No, replicò il frate, giacchè se aveste delle armi, non vi fareste trattare come si fa; ora, siccome non aveva che questo a dirvi e che ve l'ho detto, siccome credeva trovare in voi uomini e che non ho trovato che fanciulli, non abbiamo nulla da fare insieme, conducetemi a terra e che tutto sia finito.

I marinari non risposero nulla e, silenziosi, remigarono verso il molo.

Il frate offrii ai marinari qualche moneta che questi rifiutarono di ricevere, e si allontanò; ma non appena ebbe fatto qualche passo, s'intese tirare per la tonaca.

Si voltò e riconobbe il padrone della barca.

‑ Padre mio, gli disse, trovatevi qui alle ore quattro di notte, ho grandi cose da comunicarvi.

Il frate si allontanò senza rispondere.

Niuno gl'intese, niuno li vide o fè sembiante averli veduti.

Il padre Pisticci restò tutto il giorno chiuso nella sua chiesa : e la sera all'ora indicatagli venne al convegno.

Vi trovò il padrone della barca, quello stesso che avevagli dato appuntamento il mattino, accompagnato da tre capi di lazzaroni.

Dopo una breve conferenza in cui il frate si mostrò anche più sanfedista della mattina ; gli offrirono di fargli vedere ciò che sembrava solo mancargli: delle armi e delle munizioni.

Pisticci accettò.

Allora il padrone gli bendò gli occhi e dopo un sufficiente numero di giri fu condotto in una cantina, dove fu aperto un trabocchetto, il quale corrispondeva ad una grotta posta sotto, in cui erano ammonticchiati circa sei mila fucili rugginosi, sciabole, baionette, barili di polvere, e piombo da far palle.

Di poi, raccomandarono al frate di conservare il segreto, sotto pena di morte, e lo esortarono ad unirsi a loro egli ed i suoi, chè allora lo avrebbero presentato ai loro capi, e che si prenderebbe una determinazione essendo giunto il tempo di operare.

L'indomani il prete si recava prima di giorno al Direttorio e faceva l'intiera rivelazione di quanto aveva veduto il giorno innanzi..

Il Direttorio si divise in due partiti di differente parere.

Il partito moderato chiedeva che per mezzo di Pisticci che darebbe loro un nuovo appuntamento, si arrestasse il marinaio ed i tre lazzaroni e che si mettessero in prigione insieme col frate, acciò non dubitassero che la denuncia venisse da lui. Spingendo la dissimulazione e la divozione fino al colmo, il frate procurerebbe di sapere dove era il deposito delle armi, ciò che ignorava, grazie alla cura che si aveva avuto di bendargli gli occhi.

Il partito estremo voleva invece che si arrestassero, che s'interrogassero separatamente da principio, di poi tutti insieme, che si sottomettessero alla tortura, e se si ostinavano a conservare il loro segreto, che si tagliasse la testa al primo, poi al secondo poi al terzo, ciocchè persuaderebbe il quarto a confessare tutto per salvare la vita.

La risoluzione più mite fu quella adottata, e bisogna rendere giustizia ai Giacobini di Napoli, per lo spazio di sei mesi che durò il loro potere, il solo sangue versato da loro fu quello dei due Baker, i quali avevano certamente ben meritato di essere fucilati, al punto di vista di coloro che li fucilarono e dei disgraziati di cui ci occupiamo in questo momento.

Il frate acconsentì ad essere arrestato con i quattro cospiratori, e per ricompensa gli fu promesso, a cosa finita, un canonicato alla Cattedrale.

Pisticci rispose che commetteva un'azione che ben sapeva essere cattiva, non per la speranza di una ricompensa, ma per devozione alla Repubblica, per conseguenza rifiutava il canonicato: alla sua volta diè appuntamento ai suoi quattro complici, sulla piazza del Carmine, ma non appena era cominciata la conferenza, che circondati dalle pattuglie della guardia nazionale Calabrese, furono arrestati e posti nella stessa prigione, dove il frate inutilmente tentò di strappar loro il segreto. Lo riconobbero per quello che era, cioè per una spia; lo colmarono d'ingiurie, e lo minacciarono della vendetta dei realisti.

Allora si fece uscire di prigione, e protetto da guardie si fecero venire in sua presenza gli accusati, e ripetè l'accusa che aveva già fatta contro di loro. Ma negarono con ostinazione, asserendo che non avevano mai parlato di complotto a Pisticci, e mai non gli avevano mostrato armi. Furono di nuovo condotti in prigione e la legione Calabrese ricevette l'ordine di sorvegliare, più particolarmente di qualunque altro luogo la scala del piccolo porto.

Ciò venne eseguito.

Nulladimeno il corpo legislativo ed il Direttorio non capivan punto come il popolo potesse cospirare contro un governo che impiegava tutte le sue cure se non a fare almeno a preparare la felicità del popolo e che aveva cominciato dall'abolire i baroni ed i feudi, cioè la più pesante delle oppressioni che lo schiacciavano da 400 anni.

In fatti il popolo non poteva lagnarsi che di una cosa, cioè del discredito dei biglietti di banca,' ma cosa importava a lui il discredito? aveva egli mai posseduto una polizza di due ducati? Sapeva forse che cosa fosse? Ciò non pertanto il corpo legislativo per non avere niun rimprovero da farsi decretò la vendita dei Castelli e delle proprietà del Re, dichiarati beni nazionali, fino a concorrenza di 19 milioni di ducati, e che queste proprietà non potrebbero essere pagate che con delle carte di banco che guadagnerebbe, impiegata in questa compra, il dieci per cento.

Le proprietà della corona ed i Castelli Reali furono in conseguenza messi in vendita, ma niuno ebbe il coraggio di comprare, eccetto un tale Pasquale la Greca che comprò il giardino Reale a S. Lucia, e che pagò caro il suo ardire.

Si pensò che, distribuendo soccorsi a domicilio, si guadagnerebbe il popolo, ma il denaro mancava.

Domenico Cirillo immaginò allora di fondare una cassa di soccorso e vi pose tutto ciò che possedeva. I più nobili cuori di Napoli seguirono l'esempio che era loro dato dall'illustre medico: vi fu uno slancio universale di generosità, ed in qualche giorno vi si ebbe un fondo sufficiente per far fronte ai bisogni più urgenti.

Allora si scelsero in ogni strada il cittadino il più popolare, la donna di miglior fama per la purezza dei costumi, e ricevettero il nome di Padre e di Madre dei poveri.

Visitavano le case più umili, scendevano nei buggigattoli più miseri, e vi portavano il pane e l'elemosina che la patria, la comune Madre distribuiva loro, quale presta nome della provvidenza: per mezzo loro gli operaj che avevano una professione, trovarono del lavoro, i malati soccorsi e rimedi. Le due Signore che posero maggiore ardore in quest'opera di misericordia furono le due Duchesse di Pepoli e di Cassano.

Carolina e Ferdinando, presero nota sopra i loro taccuini reali di questi due nobili nomi. L'una di esse vi era già notata, la Duchessa di Cassano, era la stessa che aveva disdegnosamente respinto le lusinghe del Re.

Ma la miseria essendo grande, la Cassa si trovò ben presto esaurita.

Il Corpo legislativo propose che tutti gl'impiegati della Repubblica rilasciassero agl'indigenti la metà del loro soldo; Cirillo che aveva dato quanto possedeva in danaro contante, rinunziò pure alla metà del soldo, esempio che venne seguito da tutto il corpo legislativo che aveva votato la legge. Medici e chirurghi furono fissati in ogni rione incaricati di assistere gratuitamente tutti coloro che reclamavano le loro cure. I farmacisti, presso i quali si andavano a prendere le droghe indicate sopra le ricette, erano pagati dalla Cassa di soccorso del rione.

La guardia nazionale col suo patriottismo contribuiva pure alla tranquillità pubblica.

Prima della sua partenza Macdonald le aveva distribuito armi e bandiere. Le aveva dato per generale in capo un antico Uffiziale, chiamato Bassetti. Per secondo, Gennaro Serra fratello dell'ex duca di Cassano; per aiutanti, generale Francesco Grimaldi e Antonio Pineda. Un corpo di guardia fu stabilito in ogni rione, doveva mettere delle sentinelle di trenta in trenta passi.

Il Comandante della piazza fu il Generale Federici. Il Governatore del Castello nuovo, il cavaliere Massa e quello del Castello dell'Uovo il principe di San Severino.

Mentre che tutti i provvedimenti si prendevano a Napoli, vediamo cosa avveniva all'esercito del Cardinal Ruffo e quali consigli, quali ringraziamenti e quali ordini riceveva dalla Sicilia.

 

 

 

 

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