Pietro Colletta

STORIA

DEL

REAME DI NAPOLI

 

 

CAPITOLO I

 

INTRODUZIONE AL REGNO DI CARLO BORBONE

 

I. Il fiume Tronto, il Liri, il piccolo fiume di s. Magno presso Portella, i monti Appennini dove nascono le fonti di que' fiumi, i liti del Mediterraneo, correndo i tre mari Tirreno, Ionio, Adriatico, dallo sbocco del lago di Fondi alla foce del Tronto, confinano le terre che nell'XI secolo ubbidivano all'imperio greco ed alle signorie longobarde di Capua, di Salerno e di Benevento. Tanti separati dominii, la virtù del Normanno Roberto Guiscardo tramandò al nipote Ruggiero, già fattosi re della Sicilia, da lui conquistata sopra i Saraceni ed i Greci (1150). Passò il regno a Guglielmo il Malo, a Guglielmo il Buono, a Tancredi, e fugacemente a Guglielmo III. Quando il secondo Guglielmo perdè speranza di figli, maritò la principessa Costanza (sola che restava del sangue di Ruggiero) all'imperatore Enrico, della casa sveva; il quale succedè, morto Tancredi, nella corona della Sicilia e della Puglia.

Così dalla stirpe normanna, chiara per virtù guerriere, andò il regno l'anno 1189 negli Svevi. Ad Enrico succedè Federico II, gran re, ed a lui brevemente Corrado suo figlio, e poi Manfredi altro figlio, ma d'illegittimo congiungimento. I pontefici di Roma, che pretendevano all'imperio del mondo e viepiù a quello delle Sicilie, dopo aver travagliata la casa normanna, volsero le armi sacre e le guerriere contro la sveva. Sempre perdenti, benché combattessero in età d'ignoranza, ma incapaci per la stessa ignoranza de' tempi ad essere oppressi e disfatti, risorgevano dopo le perdite più adirati e nemici.

Clemente IV papa, nell'anno 1265, poi che tre papi che io precedettero avevano tentata vanamente l'ambizione di Enrico III re d'Inghilterra, instigò contro Manfredi il fratello di Luigi re di Francia, Carlo di Angiò, famoso in armi; che, viepiù spinto dalle irrequiete brame della moglie, venne con esercito all'impresa. Coronato in Roma re delle Sicilie (1266), passò nel regno e combattè Manfredi accampato presso Benevento. La virtù dello Svevo non bastò contro la fortuna del Franco e l'infame tradimento de' Pugliesi: mori Manfredi nella battaglia. Carlo stava contento sul trono quando Corradino, figlio di Corrado, venne a combatterlo (1268). Il giovinetto, vinte in Italia le città guelfe, vincitore in Tagliacozzo dove gli eserciti si affrontarono, godevasi nel campo le gioie della vittoria e le speranze dell'avvenire, allor che il re gli spinse contro la fresca legione, tenuta in serbo; così che Corradino, disfatto, fuggitivo, e poi tradito, fu prigioniero del felice Carlo: e un anno appresso, per crudeltà di quel re o spietati consigli del pontefice, ebbe (quell'ultimo figlio della casa sveva) troncato il capo. La stirpe degli Angioini si stabili nel regno delle Sicilie.

Ella diede sei re, due regine; dominarono 175 anni tra guerre esteriori ed interne. Per opera di quei re angioini furono morti Manfredi e Corradino, re svevi; poi Andrea e Giovanna I, della propria stirpe: l'altro re, Carlo da Durazzo, sorpreso negl'inganni che ordiva alle due regine di Ungheria, fu ucciso: Ladislao morì di veleni oscenamente prestati. Ai tempi loro per il vespro di Giovan di Procida furono uccisi ottomila Francesi, tiranni della Sicilia: de' tempi loro fu il parteggiare continuo de' baroni del regno: per opra loro, nato lo scisma nella Chiesa, due o tre papi contemporanei divisero le spoglie della Sede apostolica e le coscienze de' popoli cristiani. Ma quei re, che ne' penetrali della reggia nascondevano enormi delitti, erano sulla scena del trono riverenti alla Chiesa; ergevano ed arricchivano tempii e monasteri, davano dominio ai papi, concedevano privilegi agli ecclesiastici. Carlo I e Ladislao avevano virtù guerriere; aveva Roberto prudenza di regno; questa e quelle oscurate dai vizii del sangue. Gli altri re della stirpe furono flagelli del regno.

Alfonso I di Aragona, dopo che fugò Renato, ultimo degli Angioini, stabilì nell'anno 1441 la dominazione degli Aragonesi, che finì nel 1501 con la fuga di Federico. Dominarono in manco di 60 anni cinque re di quella casa, quattro dei quali, Ferdinando I, Alfondo II, Ferdinando II e Federico, s'ingomberarono sul trono nel breve spazio di tre anni, anche interrotto il regnare dalle felicità e dal dominio di Carlo VIII. Quella stirpe aragonese, superba e crudele, mosse o respinse molte guerre, abbattè le case più nobili e più potenti del regno, impeverì l'erario, suscitò tra' baroni gli umori di parte. Le quali divisioni ed universale fiacchezza causarono che lo Stato, da potente regno, cadesse a povera provincia di lontano impero. Della quale caduta io toccherò le miserie: ma ritenga frattanto la memoria degli uomini che in poco più di tre secoli e mezzo regnarono quattro case, ventidue re, senza contare i transitorii domini di Lodovico re d'Ungheria, del papa Innocenzo IV, di Giacomo di Aragona e di Carlo VII: ritenga che per pochi tempi di pace si tollerarono lunghi anni di guerra; che per travagli sì grandi avanzò la civiltà; che in tanti mutamenti fu osservato essere vizio dei Napoletani la incostanza politica, ossia l'odio continuo del presente, e 'l continuo desiderio di nuovo stato; cagioni ed effetti delle sue miserie.

II. Quando Federico, ultimo degli Aragonesi, combattuto dal re di Francia, tradito dal re di Spagna suo zio, fuggì d'Italia, i due re fortunati, nel dividere l'usurpato regno, per luogotenenti ed eserciti combatterono: Consalvo il gran capitano restò vincitore; il regno intero cadde a Ferdinando il Cattolico e sotto forma di provincia fu dal vicerè governato. Cominciò il governo vicereale che per due secoli e trent'anni afflisse i nostri popoli. Primo de' vicerè fu lo stesso Consalvo.

Mutarono gli ordini politici. Per magistrato novello, detto Consiglio Collaterale, gli antichi magistrati decaddero di autorità e di grido; la grandezza dei ministri dello Stato scemò; gli ufiziali della reggia restarono di solo nome, l'esercito sciolto; l'armata serva dell'armata e del commercio spagnuolo; la finanza esattrice risiedeva nel regno, e fuori la dispensiera di danaro e di benefizi. I feudatari abbassati da che senz'armi, i nobili avviliti nel consorzio di nuovi principi e duchi per titoli comprati. I seguaci di parte angioina, benché tornati per accordo di pace agli antichi possessi, ricevevano poco o tardi; erano spogliate le parti sveva e aragonese; Ghibellini e Guelfi al modo stesso travagliati. La superbia di Roma rinvigoriva; tutto andò al peggio.

E così passarono, ora più ora meno infelici, due secoli di servitù provinciale sino a Filippo V e Carlo VI, dei quali dirò tra poco. Imperarono in quel tempo sette re della casa di Spagna, da Ferdinando il Cattolico a Carlo II; e travagliarono in vario modo e principi e regno trenta romani pontefici, da Alessandro VI a Clemente XI. Si ebbe gran numero di vicerè, de' quali alcuno buono, molti tristi, parecchi pessimi. Il dominio della casa austriaca spagnuola finì per la morte di Carlo II nell'anno 1700; ed in quello ha termine la storia di Pietro Giannone, uomo egregio, molto laudato, e pur maggiore di merito che di fama. Ed io non che presuma di paragonarmi a quell'alto e sfortunato ingegno, come nemmeno raccomandarmi per simiglianza di sventure, ma solamente per congiungere ai termini di quella istoria i principii della mia fatica, dirò più largamente le cose del vicereale governo dal 1700 al 54, cominciamento al regno di Carlo: desiderandomi lettori già dotti ne' libri del Giannone, così che mi basti rammentare talvolta de' vecchi tempi quanto sia necessario alla intelligenza dei fatti che descriverò.

III. Al finire del 1700 Filippo V ascese al trono di Spagna e a' dominii di quella corona per testamento del morto re Carlo II. Ma contrastando il trono a Filippo l'imperatore Leopoldo, si apprestavano gli eserciti a decidere la gran lite. Il vicerè di Napoli Medianaceli gridò re Filippo V: il popolo vi fu indifferente; i nobili, amanti dell'Austria, avversi alla casa di Francia, un figlio della quale, duca di Angiò, era Filippo, si addolorarono. Ma venne a consolarli di speranze la guerra di Lombardia, dove gli eserciti imperiali erano più fortunati, e il capitano principe Eugenio riempiva  del suo nome e delle sue geste i discorsi d'Italia. Fu quindi spedito all'imperatore Leopoldo don Giuseppe Capece, ambasciatore secreto della nobiltà napoletana; la quale promettendo levare il popolo, esigeva da Cesare per patti: spedir solleciti aiuti d'armi, mutare lo Stato da provincia a regno libero, dargli re Carlo arciduca, mantenere i privilegi acconsentiti da' passati principi, fondare un senato di cittadini, consigliero negli affari del regno, sostenere le antiche ragioni della nobiltà, concedere nuovi titoli e terre a' congiurati. E ciò concordato, tornò in Napoli a riferire quelle pratiche e ad ordire la non facile impresa.

IV. Vennero nel tempo stesso, fingendo cagioni oneste, don Girolamo Capece e 'l signor Sassinet da Roma, don lacopo Gambacorta principe di Macchia da Barcellona; il Capece colonnello nelle milizie di Cesare, il Sassinet segretario dell'ambasciata imperiale presso il papa, il Gambacorta giovine pronto, loquace, povero, ambizioso, con le qualità più eminenti di congiurato, per lo che fu capo e diede alla congiura il suo nome di Macchia (1701). Era il mezzo di settembre quando, computate le opere e i tempi, si prefisse primo giorno dell'impresa il dì 6 di ottobre. Uccidere il vicerè, occupare i castelli della città, gridar re il principe Carlo figlio dell'imperatore Leopoldo, opprimere le poche spensierate milizie spagnuole, reggere lo Stato sino all'arrivo dei promessi da Cesare soccorsi d'armi, furono i disegni della congiura. I congiurati (quasi tutta la nobiltà del regno) divisero le cure e i pericoli della impresa.

Ma nuovi avvenimenti ruppero le dimore. Lettere del cardinal Grimani ambasciatore di Cesare a Roma, scritte ad un congiurato, e per avviso del duca di Uzeda, ivi ministro di Filippo V, intercette dal vicerè, gli rivelarono esservi congiura, lasciandone oscure le fila e lo stato. Perciò, di ogni cosa sospettoso, vegliava l'interno della casa, mutava le usanze di vita, radunava le sue poche milizie, spargeva esploratori tra' nobili e nel popolo: compose e concitò la Giunta degl'Inconfidenti a punire, fece imprigionare il padre Vigliena teatino; fuggì il padre Torres gesuita: trepidavano d'ambe le parti i ministri del governo e i congiurati.

Questi alfine, o confidenti nella propria potenza, o sforzati dalle male venture a precipitare le mosse, levaronsi a tumulto il 23 di settembre. Non poterono uccidere il vicerè (morte concertata col cocchiere di lui e due schiavi) perché quegli non uscì come soleva in carrozza; investirono il Castelnuovo e lo trovarono chiuso e guardato: le prime speranze della congiura fallarono. Ma dopo quelle mosse irrevocabili, trascinati dalle necessità del presente, confidando nella immensa forza di popolo sfrenato, andarono con bandiera d ' i Cesare gridando il nuovo re, accrescendo il tumulto, atterrando le immagini di Filippo, ergendo quelle di Carlo, aringando la plebe nelle piazze, promettendo abbondanza e, secondo gli usi

dispotici del tempo, impunità, favori e privilegi. Ne' quali moti que' nobili congiurati, per accrescersi potenza o per giovanile superbia, si chiamavano de' nuovi titoli di principi e duchi patteggiati con Cesare.

Il dottore Saverio Pansuti, altiero, dotto, facondo, congiurato e nella congiura eletto del popolo, salito sopra poggiuolo della piazza del mercato, popolosa e facile alle novità, chiamò col cenno le genti ad ascoltarlo; disse ch'egli era il nuovo eletto, rammentò i mali del governo di Spagna, ingrandiva le speranze dell'impero di Cesare, magnificava le forze della congiura, prometteva doni e mercedi, pregava il popolo si unisse a' nobili. Finita l'aringa, un uomo tra quelle genti, canuto di vecchiezza e plebeo, con voce alta parlò in questi sensi:

«Voi, Eletto, e voi, popolo, ascoltate. Sono molti anni che il mal governo spagnuolo fu da noi scosso, movendoci Masaniello popolano. Stettero i nobili o contra noi o in disparte, e spesso vennero ad aringare (come ora il nuovo Eletto) per ricondurci alla servitù, chiamandola quiete. Io, giovinetto, seguitai le parti del popolo; vidi le fraudi dei signori, letradigioni del governo, le morti date a' miei parenti ed amici. Io, vecchio ora che parlo, e assennato dal tempo, credo che in questa congiura di nobili debba il popolo abbandonarli, come nella congiura di Masaniello fu da' nobili abbandonato. Udite già gli assunti nomi di principe di Piombino, principe di Salerno, conte di Nola, e aspettatevi tanti altri ancora ignoti, ma che tutti sarebbero sopra noi nuovi tiranni, lo mi parto da questo luogo; mi seguirà chi presta fede ai miei detti». Restò vòta la piazza; il primo oratore tornò confuso.

Ma pure molti della più bassa plebe e del contado, non per amore di fazione, ma per avidità di guadagni, rinforzarono i congiurati; e nel tumulto andavano spogliando le case ed uccidendo alla cieca uomini d'ogni parte; alle quali opere malvage, parecchi uomini della nobiltà, cospiratori ancor essi, o aderenti, ma non palesi, ripararonsi ai castelli da milizie spagnuole guardati; altri fuggirono la sconvolta città; altri munirono le case di sbarre e armigeri. Scemavano la potenza dell'impresa le sfrenatezze della plebe e l'avvilimento de' grandi; tal che il principe di Macchia per editto minacciò pena di morte così a' predoni quanto a coloro tra' nobili che indugiassero oltra un giorno ad aiutare le parti del re Carlo. L'editto, disperante agli uni, estremo agli altri, nacque in doppio modo alla congiura.

Così che il vicerè, vedendo freddo il popolo, i nobili divisi, i congiurati pochi e ormai timidi, fece sbarcare nel terzo di le ciurme delle galere spagnuole ancorate nel porto; e formate a schiera con le milizie, le spinse dal Castelnuovo contro i ribelli, accampati dietro certe sbarre in alcuni posti della città: mentre i castelli, ad offendere e spaventare, facevano romore continuo di artiglieria. La torre di Santa Chiara occupata dai congiurati per inalzarvi la bandiera d'Austria, spiare dall'alto nella città, e sonare a doppio le campane, fu subito espugnata; gli altri posti assaltati e presi. Si dispersero i difensori: il Macchia ed altri fuggirono; Sassinet e Sangro furono prigioni; abbassata e vilipesa la bandiera di Carlo, si rialzarono le immagini e le insegne di Filippo. Nulla rimase della tentata ribellione, fuorché la memoria, il danno e i soprastanti pericoli.

Di fatti, richiamato il Medinaceli, venne da Sicilia vicerè il duca di Ascalona. A don Carlo di Sangro colonnello di Cesare fu mozzato il capo nella piazza di Castelnuovo; altri congiurati finirono della stessa morte; altri spietatamente uccisi nelle carceri: Sassinet, però che segretario di ambasciata, fu mandato in Francia prigione; molti languivano nelle catene, i beni di tutti furono incamerati; crebbero i rigori, le pene, i supplizi per tutte le colpe, sopra tutte le classi de' cittadini. Al quale spettacolo e terrore il popolo si sdegnò del governo, e sentì pentimento d'essere mancato alla congiura de' nobili: come suole agli uomini, fallire e pentirsi.

V. (1702) Saputa dal re Filippo quella congiura, misurata la mole de' corsi pericoli, incerte ancora le guerre d'Italia e di Spagna, volle per liberalità e clemenza calmare gli odii della ribellione e de' castighi. Imbarcato perciò a Barcellona, venne in Napoli nel giugno del 1702, e fu ricevuto con le festevoli accoglienze che usano le genti oppresse a coloro in cui sperano. Il popolo non ottenne quel che più bramava, ritenere il suo re, da maggiori destini chiamato nelle Spagne; ma consegui la larga mercede alle amorevoli dimostrazioni, però che il re abolì molte taglie, donò molti milioni di ducati dovuti al fisco, rimise le passate colpe di maestà, diede titoli ai nobili di sua parte sempre mostrandosi co' soggetti benigno e piacevole. Si assembrarono il clero, i baroni, gli Eletti, per decretare in segno di universale gratitudine un dono al re di trecentomila ducati, e lo innalzamento della sua statua equestre in bronzo nella piazza maggiore della città. Ma i progressi dell'esercito d'Austria in Lombardia obbligarono Filippo, dopo due mesi di gradevole soggiorno, a partire di Napoli per pigliare il freno degli eserciti gallispani che fronteggiavano il fortunato Eugenio di Savoia. Lasciò vicerè lo stesso Ascalona.

VI. Nell'anno 1705 trapassò l'imperatore Leopoldo, e gli successe Giuseppe suo primo figlio. Non perciò rallentarono i furori della doppia guerra in Alemagna e in Italia: sì che l'Ascalona spediva soldati, navi e danaro in aiuto di Spagna, straziando per leve d'uomini e di tributi gli afflitti popoli. L'amore per Filippo dechinava, e n'era cagione l'acerbità dei suoi ministri. Così stando le cose del 1707, il principe Eugenio, disfatti nella Lombardia gli eserciti gallispani, spedi sopra Napoli, per le vie di Tivoli e Palestrina, cinquemila fanti e tremila cavalieri tedeschi sotto l'impero del conte Daun. Il vicerè Ascalona, scarso di proprie forze, concitò i regnicoli, che trovò, per avversione alla guerra e per tendenza alle novità di governo, schivi all'invito. Solamente il principe di Castiglione don Tommaso d'Aquino, e 'l duca di Bisaccia don Niccolò Pignatelli, con poche migliaia di armati accamparono dietro al Garigliano, ed all'avanzarsi del Daun tornarono in Napoli. Capua ed Aversa si diedero al vincitore; il duca di Ascalona riparò a Gaeta. L'avanguardo tedesco, retto dal conte di Martiniz, nominato da Cesare vicerè di Napoli, era in punto di marciare ostilmente; quando legati di pace gli andarono incontro a presentare le chiavi della città, non vinta ma vogliosa del nuovo impero. L'ingresso delle schiere cesaree fu trionfale; il popolo alzò voci di plauso al vincitore, e furioso qual suole nelle allegrezze, atterrata la statua poco innanzi eretta di Filippo V, rotta in pezzi, la gettò nel mare. Pochi giorni appresso cederono i tre castelli della città; il presidio di Castelnuovo, ufiziali e soldati, spagnuoli e napoletani, passò agli stipendi del nuovo principe, non vergognando della incostanza.

Il principe di Castiglione, o non ancora sentisse morte le speranze, o (che più l'onora) si conservasse fedele alle sventure della sua bandiera, con mille cavalli riparavasi nelle Puglie; ma trovato munito dal nemico il passo di Avellino, deviò per Salerno. Più numerosa cavalleria tedesca lo inseguiva; le sue genti lo abbandonavano; con pochi resti dei mille fu prigione. Potendo quegli esempi su tutto il regno, si arresero al general Vetzeel gli Abruzzi, che il duca d'Atri vanamente incitava alla guerra; ed indi a poco la fortezza di Pescara: la sola Gaeta, rinforzata delle galere del duca di Tursi, faceva mostra di resistere lungamente.

Stretta di assedio che il conte Daun dirigeva, e aperta, non finito il settembre, una breccia, gli assalitori vi montavano, e gli assediati andavano fuggendo in mal ordine dietro un argine alzato giorni innanzi per compenso de' rotti muri: la debilità del luogo, la paura de' difensori, l'impero degli assalti, la fortuna portando i Tedeschi oltre la fossa e la trinciera, entrarono nella costernata città e vi fecero stragi e rapine. L'Ascalona e pochi altri riparati nella piccola torre di Orlando, la cederono il dì seguente per solo patto di vita, e vennero a Napoli prigioni; erano tra i più chiari, oltre il vicerè, il duca di Bisaccia e 'l principe di Cellamare, uomini poco innanzi autorevoli e primi nel regno, valorosi nelle battaglie, nobilissimi di sangue, favoriti sempre dalla fortuna; oggi avviliti e prigioni di barbaro straniero. La plebe, dietro quella misera turba di cattivi, offendeva l'Ascalona rammentando le esercitate crudeltà nella congiura di Macchia; e, più spietata e codarda, volgeva le ingiurie a' due nobili napoletani che soli o tra pochi mantennero nelle sventure la giurata fede a Filippo. Il dominio di Cesare si stabilì nel regno; e chiamato in Germania il conte di Martiniz, restò vicerè il conte Daun.

VII. Subito. attese a ricuperare le fortezze (dette Presidii) della Toscana, che soldati spagnuoli guardavano. Al general Vetzeel, colà spedito con buona schiera, si renderono santo Stefano ed Orbitello: indi, per più gravi travagli di guerra, Porto Longone; e finalmente, nel 1712, Portercole. Chiamato il Daun a guerreggiare in Lombardia, gli succedè nel viceregno il cardinale Vincenzo Grimani, veneto.

Era finita per Napoli la guerra: ma l'occupazione di Comacchio da' soldati cesarei, la intimazione di Cesare al duca parmigiano di tenersi feudatario non più del papa ma dell'imperio, e infine il divieto al regno di pagare le tasse consuete al pontefice, mossero Clemente XI ad assoldare ventimila uomini d'arme sotto il conte Ferdinando Marsili bolognese, ed accamparli nelle terre di Bologna, Ferrara e Comacchio. Ciò visto, il Daun partivasi dalla Lombardia verso quella schiera, ed in Napoli si adunavano altre forze contro Roma. L'imperatore Giuseppe non voleva contese col papa, ma intendeva per quegli atti di guerra forzarlo a riconoscere sovrano di Spagna Carlo suo fratello. Perciò il Daun, procedendo contro que' campi, proponeva accordi al pontefice, il quale, alle risposte audace e saldo, mostrava confidare nella guerra. Strano perciò vedere un felice capo di eserciti invocar la pace, ed un papa le armi.

Alle ostinate ripulse procedendo le genti tedesche, presero con poca guerra Bondeno e Cento, circondarono Ferrara e Forte‑Urbano; e imprigio­nata parte delle milizie papali, fugati i resti, stanziarono ad Imola e Faenza.

Clemente, sotto quelle sventure, e alle peggiori che minacciava l'esercito mosso da Napoli, piegò lo sdegno e, non più pregato, pregando accordi, accettò patti e pubblici  e secreti, per i quali tutte le voglie del vincitore si appagavano. Fu vera pace negli atti scritti e nella mente degli uomini, ma tregua e inganno nell'animo del pontefice; il quale aspettava opportunità di rompere quegli accordi, che, non ratificati dalla coscienza, parevano a lui leggi di forza, durabili quanto la necessità.

VIII. Morto in Napoli nel 1710 il cardinal Grimani, venne vicerè il conte Carlo Borromeo, milanese. E nel seguente anno trapassò l'imperatore Giuseppe, al quale succedè Carlo, fratello di lui, terzo di quel nome nelle contrastate Spagne, sesto nella Germania e nel reame di Napoli. Durò altri due anni la guerra che fu detta di successione; ma dipoi la pace di Utrecht venne a rallegrare le travagliate genti (1715), Ciò che importò di quegli accordi alla nostra istoria fu il mantenimento del regno di Napoli a Carlo VI, e la cessione del regno della Sicilia al duca di Savoia Vittorio Amedeo. E pure importa sapere, per i futuri destini di questi due regni, che la corona delle spagne si fermo in Filippo V.

Poco appresso alla pace di Utrecht, il re Vittorio andò a Palermo per entrare al possesso del regno, e godere gli omaggi e 'l nome nuovo di re. Giunto nell'ottobre, e lietamente accolto dai popoli, ebbe il dominio dei regno dal marchese de Los Balbases, vicerè per Filippo V: e coronati con la moglie nel seguente dicembre, tornarono in Piemonte, lasciando l'isola, presidiata e obbediente, a governo del vicerè Annibale Maffei, mirandolese.

Ma nella pace di Utrecht, non essendo chiamato l'imperatore Carlo VI (così che in tutto l'anno 1715 durò la guerra in Spagna, in Italia, nelle Fiandre) abbisognò nuova pace che si fermò in Rastadt l'anno 1714; per la quale l'imperatore teneva la Fiandra, lo stato di Milano, la Sardegna, il regno di Napoli e i presidii della Toscana. Il conte Daun ritornò in Napoli vicerè. Pareva stabile qualle quiete; però che le ambizioni de' re potenti erano soddisfatte, quelle de' deboli principi disperate, quando tre anni appresso, nel 1717 senza motivo di guerra senza cartello senza contrasto, poderosa armata spagnuola occupò la Sardegna. Dopo la universale maraviglia si apprestavano armi nuove in Germania ed in Francia; ma lo stesso naviglio di Spagna improvvisamente assaltando la Sicilia prese Palermo, fugatone il vicerè di Amedeo, espugnò Catania, bloccò Messina, Tràpani, Melazzo. Reggeva tanta guerra il marchese di Leede, nato fiammingo, generale di Filippo V.

Si collegarono in Londra nel 1718, contro la Spagna, infida e ingorda di reami, l'impero, il Piemonte, la Francia e l'Inghilterra; e per patti, allora secreti, assalirono gli eserciti e le armate spagnuole in varie parti. Molte navi inglesi con soldati di Cesare ancorarono nel porto di Messina; oltre dieci migliaie di Napoletani e Tedeschi accamparono a Reggio; intendendo a liberare la cittadella di Messina e 'l forte di San Salvatore dell'assedio che stringeva l'intrepido Leede. In due battaglie navali ebbe piena vittoria l'ammiraglio inglese Bing su lo spagnuolo Castagnedo, così che molte navi furono prese, altre affondate, poche fugate o disperse. La città di Messina, benché dagli Spagnuoli posseduta, era investita; i campi spagnuoli minacciati; ma quel Fiammingo, assediato ed assediatore, provvedendo quando alle offese quando al difendersi, espugna le due fortezze, e innanzi agli occhi del vincitore Bing e de' campi cesarei, avventuroso innalza sopra quelle ròcche la bandiera di Spagna. Lasciata la città ben munita, corre all'assedio di Melazzo.

(1720) Altre armate, altre schiere nemiche alla Spagna arrivano in Sicilia: è presa per esse Palermo, liberata Melazzo, ricuperata Messina: i popoli che parteggiavano per il fortunato Leede, oggi, mutata sorte, parteggiano per Cesare: tutto va in peggio. Il generale spagnuolo, sospettando le sventure estreme, preparava l'abbandono dell'isola. La Spagna, travagliata in altre guerre, ormai non eguale a' potentissimi suoi contrari, accetta per pace i secreti accordi dell'alleanza nemica, e riceve piccolo e futuro premio contro i danni gravi e presenti della guerra. La Sicilia per quella pace fu data a Cesare: il re Amedeo n'ebbe, ricompensa povera, la Sardegna: ebbe Filippo V la successione a' ducati di Parma, Piacenza e Toscana. I principi ancora viventi di quei paesi, il papa pretendente al dominio di Parma, e 'l re Amedeo restarono scontenti di que' patti: ma in povertà di stato null'altro poterono che lamenti e proteste. Il generale Leede imbarcò per la Spagna le sue genti e cinquecento dell'isola, che volontari si spatriarono; però che, rimasti fedeli alla parte spagnuola, temevano lo sdegno e la vendetta del vincitore. Misera sorte di chi s'intrigò nelle contese dei re, e meritata se lo fece, non a sostegno di massime civili, ma per ambizione o guadagno.

Le due Sicilie si unirono sotto l'impero di Carlo VI, che nominò vicerè nell'isola il duca di Monteleone, ed in Napoli il conte Gallas, dopo il conte Daun richiamato. Morto il Gallas gli succedè il cardinale di Scotembach. E poiché nell'anno 1721 mori Clemente XI e fu eletto Innocenzo XIII, il nuovo papa, vedendo dechinata la fortuna e la potenza di Filippo V, non dubitò di concedere al felice Carlo VI la domandata investitura de' due regni. A questo Innocenzo, nell'anno 1724, Benedetto XIII successe.

XI. In dieci anni, dal 1720 al 30, non avvennero in Napoli cose memorabili, fuorché tremuoti, eruzioni volcaniche, diluvi ed altre meteore distruggitrici. Ma nella vicina Sicilia, l'anno 1724, fatto atroce apportò tanto spavento al Regno, che io credo mio debito il narrarlo a fine che resti saldo nella memoria di chi leggerà; e i Napoletani si confermino nell'odio giusto alla inquisizione; oggidì che per l'alleanza dell'imperio assoluto al sacerdozio, la superstizione, l'ipocrisia, la falsa venerazione dell'antichità spingono verso tempi e costumi abborriti, e vedesi quel tremendo Uffizio, chiamato Santo, risorgere in non pochi luoghi d'Italia, tacito ancora e discreto, ma per tornare, se fortuna lo aiuta, sanguinario e crudele quanto né tristi secoli di universale ignoranza.

Andarono soggetti al Santo‑Uffizio, l'anno 1699, fra Romualdo laico, Agostiniano, e suora Geltrude bizzoca di san Benedetto: quegli per quietismo, molinismo, eresia; questa per orgoglio, vanità, temerità, ipocrisia. Ambo folli, però che il frate, con le molte sentenze contrarie a' dogmi o alle pratiche del cristianesimo, diceva ricever angeli messaggieri da Dio, parlare con essi, esser egli profeta, essere infallibile: e la Geltrude, tener commercio di spirito e corporale con Dio, essere pura e santa, avere inteso dalla Vergine Maria non far peccato godendo in oscenità col confessore; ed altri assai sconvolgimenti di ragione. I santi inquisitori ed i teologi del Santo‑Uffizio avevano disputato più volte con quel miseri, che ostinati, come mentecatti, ripetevano delirii ed eresie. Chiusi nelle prigioni, la donna per 25 anni, il frate per 18 (attesochè gli altri sette li passò a penitenza ne' conventi di san Domenico) tollerarono i martorii più acerbi, la tortura, il flagello, il digiuno, la sete; e alla per fine giunse il sospirato momento del supplicio. Avvegnachè gl'inquisitori condannarono entrambo alla morte, per sentenze confermate dal vescovo di Albaracin, stanziato a Vienna, e dal grande inquisitore della Spagna; dopo di che il devoto imperatore Carlo VI comandò che quelle condanne fossero eseguite con ' la pompa dell'Atto‑di‑Fede. Le quali sentenze amplificavano il santissimo tribunale, la dolcezza, la mansuetudine, la benignità de' santi inquisitori: e incontro a sensi tanto umani e pietosi la malvagità, la irreligione, la ostinatezza de' due colpevoli. Poi dicevano la necessità di mantenere le discipline della sacrosanta cattolica religione, e spegnere lo scandalo, e vendicare lo sdegno de' cristiani.

Il dì 6 di aprile di quell'anno 1724, nella piazza di sant’ Erasmo, la maggiore della città di Palermo, fu preparato il supplizio. Vedevi nel mezzo croce altissima di color bianco e da' lati due roghi chiusi, alto ciascuno dieci braccia, coperti da macchina di legno a forma di palco, alla quale ascendevasi per gradinata; un tronco sporgeva dal coperchio di ogni rogo: altari da luogo in luogo, e tribune riccamente ornate stavano disposte ad anfiteatro dirimpetto alla croce; e nel mezzo, edificio più alto, più vasto, ricchissimo di ornamenti per velluti, nastri dorati ed emblemi di religione. Questo era per gl'inquisitori; le altre logge per il vicerè, l'arcivescovo, il senato; e per i nobili, il clero, i magistrati, le dame della città: il terreno per il popolo. A' primi albori le campane suonavano a penitenza: poi mossero le processioni di frati, di preti, di confraternite; che, traversando le vie della città, fatto giro intorno alla croce, si schierarono all'assegnato luogo. Popolata la piazza sin dalla prima luce, riempivano le tribune genti che, a corpi o spicciolate, con abiti di gala, venivano al sacrificio: era pieno lo spettacolo; si attendevano le vittime.

Già scorso di due ore il mezzo del giorno, mense innumerevoli ed abbondanti cuoprirono le tribune, così che la scena preparata a mestizia mutò ad allegrezza. Fra' quali tripudii giunse prima la misera Geltrude, legata sopra carro, con vesti luride, chiome sparse e gran berretto di carta che diceva il nome, scritto con dipinte fiamme d'inferno. Convoiavano il carro, tirato da bovi neri e preceduto da lunga processione di frati, molti principi e duchi sopra cavalli superbi; e dietro,' cavalcati a mule bianche, seguivano i tre padri inquisitori. Giunto il corteggio, e consegnata la donna ad altri frati domeniicani e teologi per le ultime e finte pratiche di conversione, ricomparve corteggio simile al primo per il frate Romualdo: ed allora gl'inquisitori sederono nella magnifica ordinata tribuna.

Compiute le formalità, bandito ad alta voce l'ostinato proponimento de' colpevoli, lette le sentenze in latino, prima la donna salì al palco, e due frati manigoldi la legarono al tronco, e diedero fuoco alle chiome, imbiotate innanzi di unguenti resinosi acciò le fiamme durassero vive intorno al capo: indi bruciarono le vesti, anch'esse intrise nel catrame, e partirono. La misera rimasta sola sul palco, mentre gemeva e le ardevano intorno e sotto i piedi le fiamme, cadde col coperchio del rogo; e scomparso il corpo, rimasero ai sensi degli spettatori i gemiti di lei; le fiamme, il fumo, che andavano ad oscurare l'alta croce di Cristo svergognata. Così fra Rornualdo mori nell'altro rogo, dopo aver visto il martirio della compagna. Tra gli spettatori notavasi un drappello sordido, mesto, di 26 prigioni del Santo‑Uffizio, voluti presenti alla cerimonia: soli fra tutti che piangessero di quei casi, perciocchè gli altri, sia viltà, o ignoranza, o religion falsa, o empia superstizione, applaudivano l'infame olocausto. Erano i tre inquisitori frati spagnuoli: degli allegri assistenti non dirò i nomi, però che i nipoti, assai migliori degli avi, arrossirebbero; ma sono in altre carte registrati; che raramente le pubbliche virtù, più raramente i falli rimangono nascosti. Descrisse quell'atto in grosso volume Antonio Mongitore; e dal dire e dalle sentenze si palesò divoto e partigiano del Santo‑Uffizio: egli, lodato per altre opere e soprattutto per la biblioteca sicialiana, chiaro mostrò che la dolcezza delle lettere umane era stata in lui vinta dagli errori del tempo, e dalla intolleranza del suo stato: era canonico della cattedrale.

X. L'anno 1730 nuovi moti di guerra si palesarono; giacché per le segrete pratiche di Hannover, la Francia, la Spagna e la Inghilterra apprestavano eserciti ed armate, e l'imperatore Carlo VI, avvisato di quei disegni, spediva nuove milizie ad afforzare gli Stati di Milano e delle Sicilie. In quell'anno istesso, per la morte di Benedetto XIII, ascese al papato Clemente XII. E si udì il famoso re Vittorio Amedeo rinunziare il regno a suo figlio Carlo Emanuele per andare privato nel castello di Chambery. Anni avanti, maggiore re, Filippo V, aveva pur fatta cessione del regno per vivere divotamente, ci diceva, nel castello di sant'Idelfonso; ma dopo otto mesi, per la morte del figlio Luigi, ripigliata la corona, regnò come prima infingardo e doppio. Così Amedeo, presto fastidito del ritiro di Chambery, volea tornare all'impero; ma il figlio re gli si oppose, ed indi a poco lo mandò prigione al castello di Rivoli, poscia a quello di Moncalieri, dove, guardato, mori miseramente, negatogli di vedere gli amici, il figlio istesso, la moglie.

XI. (1732‑35) Dopo due anni di pratiche ed apparecchi venne in Italia l'infante di Spagna don Carlo, per mostrarsi a' popoli di Toscana, Parma e Piacenza, suoi futuri soggetti, facendosi nella reggia spagnuola memorabili cerimonie di congedo; avvegnachè nel giorno della partita, stando il re Filippo e la regina Elisabetta seduti in trono, e tutta la corte assistente, l'infante don Carlo, com'era costume di quella casa e come voleva figliale rispetto, s'inginocchiò innanzi al padre, il quale con la destra gli segnò ampia croce sul capo, e messolo in piede, gli cinse spada ricchissima d'oro e di gemme, dicendo: «E' la stessa che Luigi XIV, mio avo, mi pose al fianco quando m'inviò a conquistare questi regni di Spagna: porti a te, senza i lunghi travagli della guerra, fortuna intera». E baciato su la gota lo accomiatò. Poco di poi eserciti poderosi di Francia scesero per cinque strade in Italia, condotti dal vecchio maresciallo di Villa's; e rinnovando guerra nella Lombardia ebbero successi felici. Ciò visto, molte navi spagnuole sciolte dai porti di Livorno e Longone, ed un esercito radunato negli Stati di Parma e di Toscana, guidato dall'infante per nome o impero, e dal conte di Montemar per consiglio, si avviarono nemichevolmente verso Napoli. La quale impresa, come origine del novello Stato, narrerò nel seguente capo, qui bastando accennare che, non ancora finito il mezzo dell'anno 1755, tutte le terre e tutti i popoli delle due Sicilie stavano sotto il re Carlo Borbone.

XII. Le cose riferite de' passati tempi risguardano al dominio di questi regni, palleggiati di casa in casa regnante per guerre e conquiste. E se qui fermassi il racconto, null'altro avrei rappresentato che violenze de' grandi, sofferenze di popoli, vicissitudini di fortuna; cose note sazievolmente a' lettori. Sarà miglior pregio descrivere fra tanti scambiamenti d'impero il cammino della civiltà ovvero le leggi, i magistrati, la finanza, l'amministrazione, la milizia, le condizioni dei feudi, lo stato della Chiesa: né già da principio al fine, materia che soperchierebbe lo scopo dell'opera e le forze dello scrittore, ma quali erano l'anno 1754 quando Carlo Borbone venne al trono delle Sicilie.

Nella caduta dell'imperio di Roma decaddero le sue leggi, si ebbero leggi scritte da Longobardi, Vinti costoro da' Normanni, rimasero quelle leggi più autorevoli perché durate sotto stirpe nemica e vincitrice. Prima sparse, furono poi composte in libro; ma non isperi chi legge in esso (una copia se ne conserva negli archivi della Trinità della Cava) trovarvi distinte le materie legislative, essendo l'ordinare de' codici scienza moderna. Le leggi di Roma restate in quella età valide per il clero, sapienza e tradizione per i dotti, non avevano forza nello Stato, perciocchè il re comandava, sentenziavano i giudici, le ragioni de' cittadini si dispensavano secondo il libro longobardo.

E benché di credito scemasse quel codice poi che le Pandette di Giustiniano furono lette e disputate nelle scuole d'Italia, reggeva pur sempre accresciuto dalle leggi normanne; trentanove di Ruggero, ventuna di Guglielmo I tre del II, tutte col nome di Costituzioni. Passato il regno agli Svevi, Federico volle che le sue leggi con le normanne, disposte in libro e chiamate dal suo nome costituzioni di. Federico II, si promulagassero. E quindi crebbe la mole delle leggi scritte coi capitoli della stirpe angioina, con le Prammatiche degli Aragonesi. Divenuto il regno provincia spagnuola e poi tedesca, molte leggi col nome istesso di Prammatiche furono date dai re di Spagna, dagl'imperatori di Germania, e da' loro vicerè. Fra tanto scambiarsi di dominii e di codici, alcune città si governavano per consuetudini.

E perciò cominciando a regnare Carlo Borbone, undici legislazioni, o da decreti di principe, o da leggi non rivocate, o da autorità di uso reggevano il Regno; ed erano: l'antica Romana, la Longobarda, la Normanna, la Sveva, l'Angioina, l'Aragonese, l'Austriaca spagnuola, l'Austriaca tedesca, la Feudale, la Ecclesiastica, la quale governava le moltissime persone e gli sterminati possessi della Chiesa, la Greca nelle consuetudini di Napoli, Amalfi, Gaeta, ed altre città un tempo rette da uffiziali dell'impero di Oriente; così come le consuetudini di Bari e di altre terre traevano principio dalle concessioni longobarde. Le molte legislazioni s'impedivano, mancava guida o imperio alla ragione de' cittadini, al giudizio dei magistrati.

Un giudice in ogni comunità, un tribunale in ogni provincia, tre nelle città, un consiglio detto collaterale presso il vicerè, altro consiglio chiamato d'Italia o supremo presso del re in Ispagna quando i re spagnuoli dominavano, o in Germania quando imperavano i Tedeschi, erano i magistrati del Regno. Non bastando alla procedura i riti di Giovanna II, suppliva l'uso, e più spesso l'arbitrio del vicerè: non essendo ben definito il potere de' magistrati, la dubbietà delle competenze si risolveva dal comando regio: e le materie giudiziarie avviluppandosi alle amministrative, il diritto e 'l potere, il magistrato e 'l governo soventi volte si confondevano. Finalmente, per la ignoranza di quella età, i soggetti credendosi legittimi servi, e i reggitori stimandosi non ingiusti a soperchiare, ne derivava doppio eccesso di servitù e d'impero: con deformità più manifesta né processi e né giudizi. Crearono gli enunciati disordini curia disordinata e malvagia. Qualunque della plebe con toga in dosso dicevasi avvocato ed era ammesso a difendere i diritti e le persone de' cittadini: e però che all'esercizio di quel mestiere pieno di guadagni non si richiedevano studii, esami, pratiche, lauree moltiplicava tuttodì la infesta gente de' curiali.

XIII. Ora dirò della finanza, parte assai principale di governo, che oggi vorrebbe sottoporsi a regole e guidarsi con filosofiche dottrine, tal che mantenesse la potenza allo Stato e la prosperità del vivere civile: ma ne' tempi de' quali compongo le istorie, era uso cieco e violento di forza, senza ordine, o misura, o giustizia; rovinoso a' privati, non profittevole all'universale. S'imponevano tributi a tutte le proprietà, a tutte le consumazioni, a qualunque segno di possesso, alle vesti, al vitto, alla vita, senza misura o senno, solamente mirando all'effetto maggiore delle imposte. Sotto i Nor­manni e gli Svevi (rammento cose note, ma necessarie), né regni meno rei di Guglielmo il Buono, di Federico II e di Manfredi congregandosi a parlamen­to la baronia, il clero, i maggiori di ogni città, si statuivano le somme da

pagarsi al fisco; ma quelle pratiche civili, già decadute sotto gli Angioini ed Aragonesi, cessarono affatto nell'avaro governo vicereale, che a ragione temeva le adunanze degli uomini e de' pensieri: o se talvolta i reggitori commettevano a' Seggi della città di proporre le nuove taglie, era scaltrezza per evitare i pericoli e l'onta dell'odiosa legge. Poste tutte le gravezze, né però satollata l'avidità o provveduto a' bisogni, si venne a' partiti estremi, sperdendo i beni del demanio regio, dando a prezzo i titoli di nobiltà e le magistrature, infeudando le città più cospicue, ipotecando le future entrate

del fisco, e alienandole come quelle dette c ' on voce spagnuola arrendamenti.

XIV. Non meno della finanza era mal provvista l'amministrazione de' beni e delle entrate comunali, che per le costituzioni di Federico II, perciò sin da tempi antichissimi, affidavasi ad un sindaco e due Eletti, scelti dal popolo in così largo parlamento, che non altri erano esclusi dal votare fuorché le donne, i fanciulli, i debitori della comunità, gl'infami per condanna o per mestiero. Si adunava in certo giorno di estate nella piazza, e si facevano le scelte per gride, avvenendo di raro che bisognasse imborsar più nomi per conoscere il preferito. Libertà, che non eguale alle altre regole di governo e superiore a' costumi del popolo, trasmodava in licenza e tumulti. Due sole amministrazioni si conoscevano, di municipio e di regno: le innumerevoli relazioni di municipio, a municipio, a circondario, a distretto, a provincia, erano trasandate o provvedute per singolari arbitrarie ordinanze. L'amministrazione del regno non avendo codice che desse moto, norma o ritegno alla suprema volontà, mancava quell'andar necessario per leggi che è certo cammino e progresso alla civiltà. Perciò le opere pubbliche erano poche, volgendosi a profitto dell'erario il denaro, che ben regolato regno spende per comune utilità: le sole nuove fondazioni erano di conventi, di chiese, di altri edifizi religiosi, ovvero monumenti di regio fasto. Quindi le arti, poche e meschine; una la strada, quella di Roma; piccolo e servo il traffico di mare cogli esterni, nullo quello di terra, i fiumi traboccanti, i boschi cresciuti a selvatiche foreste, l'agricoltura come primitiva, la pastorizia vagante, il popolo misero e dicrescente.

Solamente per circolo inesplicabile dell'umano intelletto risorgevano fra tanta civile miseria le lettere e le scienze, né già per cura del governo, che in questa come nelle altre utili opere stava ozioso ed avverso, ma per accidentale (se non da Dio provveduto) simultaneo vivere d'uomini ingegnosissimi. Domenico Aulisio, Pietro Giannone, Gaetano Argento, Giovan Vincenzo Gravina, Nicola Capasso, Niccolò Cirillo e tanti che saria lungo a nominarli, nati al finire del secolo XVII, vivevano né primi decenni del secolo seguente come luce della loro età e dell'avvenire. E viveva Giovan Battista Vico, miracolo di sapienza e di fama postuma, però che, da nessuno pienamente inteso, da tutti ammirato, e coll'andar degli anni meglio scoperto e più accresciuto di onore, dimostra che in lui era forse volontaria l'oscurità, o che le sentenze del suo libro aspettano per palesarsi altri tempi ed ordine di studii‑più confacente alle dottrine di quello ingegno.

XV. Assai peggiori delle istituzioni civili erano le militari. Si usavano per levar soldati tutti i modi illegittimi: i gaggi, la seduzione, la scelta de' condannati o de' prigionieri, la presa de' vagabondi, l'arbitrario comando de' baroni; il solo mezzo giusto della sorte non era usato. I pessimi delle città erano quindi eletti al più nobile uffizio dei cittadini, e si mandavano per guerre lontane in Italia, o più sovente in Ispagna, dove con abito spagnuolo, sotto non propria insegna, per nome e gloria d'altri combattevano. Napoli intorpidiva in servitù scioperata, i Napoletani stavano in guerra continua ed ingloriosa. Non erano nell'interno ordini di milizia; milizie straniere guardavano il paese, e le nostre in terra straniera obbedivano alle non proprie ordinanze: le arti di guerra imparate altrove non erano utili a noi; e 'l sangue e i sudori delle nostre genti non facevano la gloria nostra. Così che mancavano ordini, usi, esercizi, tradizione, fama, sentimento di milizia: e questo nome onorevole negli altri Stati era per Napoli doloroso ed abborrito.

XVI. La stessa feudalità era caduta di onore. Lo dirò in miglior luogo come ella venne a noi, quanto crebbe; come per le consuetudini feudali e le costituzioni de' principi disposte in libro, la servitù de' vassalli si legittimò; quali furono le venture della feudalità ne' regni angioini e svevi, e quanta la superbia di lei contro i re aragonesi: qui basta rammentare che precipitò di tanta altezza nel governo de' vicerè; né già per leggi o studio di abbassarla, ma per propria corruzione e per esiziale natura di que' governi. I baroni, non più guerrieri né sostegni o pericolo de' loro re, non curanti le opere ammirate di generosa nobiltà, oziosi e prepotenti ne' castelli, si godevano tirannide sopra vassalli avviliti. E i vicerè vendevano feudi, titoli, preminenze; innalzavano al baronaggio i plebei purché ricchi; involgavano la dignità feudale. Perciò, all'arrivo del re Carlo Borbone, i feudatari, potenti quanto innanzi per leggi, erano per sé stessi, vili, corrotti, odiati e temuti: non come si temono le grandezze, ma le malvagità.

XVII. Rimane a dire della Chiesa. Chi scrivesse con verità ed ampiezza le vite ed opere de' pontefici, distenderebbe la storia civile dell'Italia; tanto si legano al pontificato le guerre, le paci, gli sconvolgimenti e mutamenti di Stato, la civiltà rattenuta o retrospinta. E, per dir solamente del nostro regno, le brighe de' pontefici arrestarono, poi spensero, il bene civile che faceva la stirpe sveva: i pontefici doppiarono i mali della stirpe angioina: i pontefici alimentarono le guerre domestiche sotto i re aragonesi. Niccolò III congiurò nel vespro siciliano: Innocenzo VIII concertava la ribellione e la guerra baronale contro Ferdinando ed Alfonso: Alessandro VI non disdegnava di praticare con Bajazet, imperatore dei Turchi, per dar travagli ai regni cristiani delle Sicilie: i pontefici, nel lungo corso del viceregno, concitavano a discordia ora i reggitori ora i soggetti, come giovasse meglio alle pretensioni sterminate della Chiesa.

E poiché natura delle cose o provvedimento divino è il precipitare ai mali che ad altri si arrecano, furono que' pontefici, quanto più malevoli, tanto più tribolati ed infelici. Grandi sventure tollerò il papato in que' secoli: appena ristoravasi dalle divisioni e scandali dello scisma, che seguirono le dottrine di Lutero e la riforma; le guerre infelici, la prigionia di Clemente VII, gli atti del concilio di Trento non in tutto accettati dai re cristiani; la bolla di Coena Domini rifiutata, la così detta monarchia di Sicilia rinvigorita, le rivoluzioni di Napoli per la inquisizione, il discacciamento de' nunzi, l'abolizione della nunziaturà: ed in breve la scoperta ribellione delle podestà civili e delle opinioni all'imperio della Chiesa.

E più scendeva la pontificale alterigia se nuovi frati e smisurate ricchezze non si facevano sostegni al declinare. Mancando di que' tempi perfino il catasto, rimangono ignote molte notizie importanti all'istoria: gioverebbe conoscere il numero degli ecclesiastici e la quantità de' loro possessi, per misurare quanto il sacerdozio potesse in quel popolo; ma le praticate ricerche ed il lungo studio non sono bastate al bisogno, perciocché gli scrittori del tempo, se divoti alla Chiesa, mentivano, per vergogna, le mal tolte ricchezze; o, se contrari, per accrescere lo scandalo, le accrescevano. Tra le opposte sentenze, io dirò le conghietture più probabili. Nel solo Stato di Napoli erano gli ecclesiastici intorno a centododicimila, cioè, arcivescovi 22 vescovi 116, preti 56,500, frati 31,800, monache 23,600. E perciò in uno Stato di quattro milioni d'abitanti erano gli ecclesiastici nella popolazione come il 28 nel 1,000: eccesso dannevole alla morale perché di celibi, alla umanità perché troppi, alla industria e ricchezza pubblica perché oziosi. Nella sola città di Napoli se ne alimentavano 16,500.

In quanto ai beni, gli autori più circospetti gli estimarono, escluso il demanio regio, due terze parti dei beni del paese; ed altri scrittori, che pur si dicevano meglio informati, affermano che delle cinque parti quattro ne godeva la Chiesa, sentenze l'una e l'altra maggiori del vero.

All'arrivo del re Carlo Borbone la sede apostolica pretendeva sopra i re ed i regni arrogantemente, come a' tempi di Gregorio VII: ma, scema di moral potenza, sostenevasi, come ho detto, per gran numero di ecclesiastici e smisurate ricchezze; appoggi mondani, solamente saldi tra viziose generazioni.

XVIII. Stringerò in poche sentenze le materie discorse in questo capo. Era la Chiesa tuttavia potente di forze temporali; le credenze de' popoli alla religione, ferme o accresciute; a' ministri di lei ed al pontefice, addebolite. La feudalità intera, i feudatari spregevoli, la milizia nulla, l'amministrazione insidiosa ed erronea. La finanza spacciata, povera nel presente, peggio per l'avvenire; i codici confusi, la curia vasta, intrigante, corrotta; il popolo schiavo di molti errori, avverso al caduto governo, bramoso di meglio. Perciò, bisogni, opinioni, speranze, novità d'impero, interesse di nuovo re, genio di secolo, tutto invitava alle riforme.

 

 

 

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