Pietro Colletta

STORIA

DEL

REAME DI NAPOLI

 

 

 

CAPITOLO XIII

 

DOPO LA RITIRATA DELL'ESERCITO FRANCESE PRECIPIZI DELLA REPUBBLICA

 

XXVI. Non appena uscito dalla frontiera l'esercito francese, il governo della repubblica bandì l'acquistata indipendenza, e rivocando le taglie di guerra, scemando le antiche, numerando i benefizi civili che aveva in prospetto, consigliava e pregava di non più straziare la patria nostra, ma tornar tutti agli officii di pace e al godimento che i cieli preparavano. E non pertanto, sospettoso di effetti contrari alle speranze, provide celeremente ai bisogni di guerra; imperciocché raccolse in legioni le milizie che andavano sparse in più colonne, coscrisse milizie nuove, diede carico al generale Roccaromana di levare un reggimento di cavalleria, ingrossò la schiera dello Schipani, formò due legioni, e le diede al comando dei generali Spanò e Wirtz: Spanò, calabrese, militare in antico, ma nei bassi gradi dell'esercito; Wirtz, svizzero, stato colonnello agli stipendii del re; e, lasciato dopo la sua partita sciolto d'impegni e di giuramenti, per amore di libertà arrolatosi alle bandiere della repubblica. Poscia il Direttorio fece capo supremo dell'esercito Gabriele Manthonè; lo stesso rappresentante della repubblica nel primo statuto, e ministro per la guerra nel secondo; del quale avendo detto altrove alcun fatto, ora ne prosieguo la vita. Buono in guerra, di cuor pietoso, eccellente per animo ed arte nei duelli: d'ingegno non basso né sublime, per natura eloquente. Quando ci propose al consiglio legislativo il decreto che alle madri orbate di figli per la libertà si desse largo stipendio ed onori, conchiudeva il discorso: «Cittadini legislatori, io spero che mia madre dimandi l'adempimento del generoso decreto». Morì per la libertà l'infelice, come dirò a suo luogo, ma senza i premii della legge, e non altro ebbe la madre che pianto.

Altra milizia si formò col nome di legione Calabra, senza uniformità d'armi e di vesti, né stanze comuni, né ordini di reggimento; truppe volontarie che ad occasione si univano per combattere sotto bandiera nera con lo scritto: «vincere, vendicarsi, morire». Erano tre migliaia, Calabresi, la maggior parte, avversi per genio al cardinal Ruffo, da lui vinti e fuggitivi, memori di avuti danni e ferite; incitati per tanti stimoli alla vendetta. Dell'esercito repubblicano volendo far mostra, fu schierato in più file nella magnifica strada di Toledo e nella piazza nazionale intorno all'albero della libertà, dove si vedevano giungere tra immenso popolo i membri del governo, i generali, il generale supremo Manthonè, quindi le artigilierie e le bandiere del re, tolte nei combattimenti di Castellamare e Salerno; ed un fascio d'immagini della famiglia regale, che la intollerante Polizia aveva prese in argomento di colpa da certe case della città e nelle province; chiudevano il convoio due file di prigionieri, soldati e partigiani, i quali, credendo che per pena ed esempio sarebbero stati in quel giorno e in quel luogo trucidati, andavano mestissimi e tremanti. Ardeva a fianco dell'albero un rogo, dove si divisava il bruciar le bandiere e le immagini.

Il generale supremo parlò all'esercito, l'oratore del governo al popolo, e quando s'imponevano alle fiamme le odiate materie, i repubblicani le strapparono a furia di mano agli esecutori, e trascinate per terra e lordate, le ridussero a brani e dispersero. Poscia il ministro delle finanze mostrò grossi fasci di fedi bancali (un milione e seicentomila ducati), che in tanta povertà dello Stato, e in breve tempo, la parsimonia della repubblica aveva raccolto per iscemare di altrettanto il debito nazionale; le quali carte gettate in quel rogo, preparato da brama di vendetta, bruciarono per miglior divisamento. E finalmente, chiamati i prigionieri avanti all'albero, il ministro per la giustizia lesse decreto del Direttorio, che dicendoli sedotti, non rei, offeriva à già soldati gli stipendii della repubblica, e faceva salvi e liberi i Borboniani; cosicchè sciolte le catene, succedendo alla profonda mestizia gioia improvvisa, correvano quasi folli tra 'l popolo gridando laudi e voti per la repubblica; e gli astanti, affin di accrescere quelle allegrezze, scorrevano la loro povertà esartandoli a riferire agl'ingannati concittadini la forza e la magnanimità del governo. Così ebbe fine la cerimonia: ma la festa durò lunga parte del giorno, danzando intorno all'albero, cantando inni di libertà, e stringendo, come in luogo sacro, parentadi ed accordi.

Quelle mostre di felicità furono brevi e bugiarde; però che al giorno seguente molte navi nemiche bordeggiando nel golfo davano sospetto che volessero assaltare la città per concitar tumulti nella plebe; così il governo comandò fossero armate le poche navi della repubblica, ristaurate le batterie del porto, ed altre sollecitamente costrutte. Non appena divolgato il pericolo ed il comando, andarono i cittadini volontari all'opera; e furono viste donne insigni per nobiltà, egregie per costumi, affaticare a quel duro lavoro le inusitate braccia, trasportando per parecchi giorni e sassi e terre; fu quindi il porto ben munito. Ed allora il nemico volse a Procida ed Ischia, isole del golfo, vi sbarcò soldati, uccise o imprigionò i rappresentanti e i seguaci della repubblica, ristabilì il governo regio, e creò i magistrati a punire i ribelli. Si udirono le più fiere condanne, e il nome del giudice Speciale, nuovo, ma che subito venne a spaventevole celebrità.

XXVII. Giungevano fuggitivi alla città gli abitatori di quelle isole a pregare aiuti; e i repubblicani, più magnanimi che prudenti, stabilirono con pochi legni e poche milizie combattere il nemico assai più forte. Stava in Napoli, tornato con permissione del re di Sicilia, l'ammiraglio Caracciolo, di chiaro nome per fatti di guerra marittima e per virtù cittadine; ebbe egli il comando supremo delle forze navali, ed il carico di espugnare Procida ed Ischia. Sciolsero dal porto di Napoli i repubblicani lieti all'impresa, benchè tre contro dieci; e valorosamente combattendo un giorno intero, arrecarono molte morti e molti danni, molti danni e morti patirono; e più facevano, e stavano in punto di porre il piede nella terra di Procida, quando il vento, che aveva soffiato contrario tutto il dì, infuriò nella sera, e costrinse le piccole navi della repubblica a tornare in porto: non vincitrici, non vinte, riportanti lode dell'audacia e dell'arte.

XXVIII. In Napoli frattanto le parti del re si agitavano in secreto, e, poco discorate dalla gioia e dalle apparenze de' contrarii, ordinavano potenti macchinazioni. Un venditore di cristalli, detto perciò il Cristallaro, aveva arruolato grosso stuolo di lazzari; che senz'amore di parte, ma per guadagni e rapine si giuravano sostenitori del trono. Altro capo, di nome Tanfano, dirigeva numerosa compagnia di congiurati, e concertava domestiche guerre coi sovrani della Sicilia, col cardinale Ruffo, con gli altri capi delle bande regie; riceveva danaro e lo spartiva co' suoi; aveva armi e mezzi di sconvolgimento; preparava le azioni e le mosse; lettere della regina lo chiamavano servo e suddito fedele, amico e caro al trono ed a lei. E qui rammento a quali uomini diffamati per delitti o per pene, Frà Diavolo, Mammone, Pronio, Sciarpa, Guarriglia, ultima plebe, immondizia di plebe, i sovrani della Sicilia dichiaravano sensi di amicizia e di affetto. Sopra tutte le congiurazioni era terribile quella di Baker, svizzero, dimorante in Napoli da lungo tempo, imparentato con famiglie divote a' Borboni; divoto a loro egli stesso ed ambizioso. Il quale conferendo per secreti messi con gli uffiziali delle navi contrarie, stabilirono che in giorno di festa, quando è il popolo più ozioso ed allegro, flottiglia sicula e inglese tirerebbe a bomba su Napoli, e perciò accorrendo le milizie a' castelli ed alle batterie del porto, lasciata vóta di guardie la città, sarebbe facile lo scoppio e la fortuna de' preparati tumulti: in mezzo a' quali ucciderebbero i ribelli al re, incendierebbero le loro case, si otterrebbe ad un punto vendetta e potere.

Così fermate le cose, andarono segnando in vario modo le porte e i muri delle case da serbare o distruggere, secondo era prescritto in quei nefandi concilii. E poiché sovente sotto lo stesso tetto e nella stessa famiglia dimoravano genti delle due parti, distribuirono secretamente alcuni cartelli assicuranti dalle offese. Uno fu dato dal capitano Baker, fratello del capo de' congiurati, a Luigia Sanfelice, della quale era preso di amore; e fidandole il foglio con dirne l'uso, accennò il pericolo. Ammirabile carità per donna amata e a lui crudele; la quale, rendendo grazie, prese il cartello ma non per sé, per darlo al giovine del suo cuore, che, uffiziale nelle milizie civili e caldo partigiano di repubblica, era certamente vittima disegnata della congiura. Fin qui amore guidò le azioni, ma indi appresso ira e ragion di Stato; avvegnaché il giovine, Ferri, svelò al governo quanto ei sapeva della trama, presentò il cartello, disse i nomi, superbo per sé e per la sua donna di salvare la patria. La Sanfelice, chiamata in giudizio e interrogata di que' fatti, vergognosa de' palesati amori, della denunzia, dei castighi che soprastavano, sperando alcuna scusa della pietà dei giudici per la ingenuità dei racconti, rivelò quanto aveva in cuore, solo nascondendo il nome di lui che le diede il cartello, e protestando con virile proprosito morir prima che offendere ingratamente l'amico pietoso che voleva salvarla. Ma bastarono le udite cose, e soprattutto la scrittura e i segni del cartello, a scoprire i primi della congiura, chiuderli nel carcere, sorprender armi, altri fogli, conoscer le fila della trama e annientarla. Stava la Sanfelice timorosa di pubblica vituperio, quando si udì chiamata salvatrice della repubblica, madre della patria.

Al manifestare di que' pericoli fu grande il terrore, scuoprendo nelle porte delle case e ne' muri note o segni, che, veri o accidentali, erano creduti di esterminio; se ne vedevano negli edifizi pubblici, nei banchi dello Stato, e nel palazzo vescovile con abbondanza. L'arcivescovo di quel tempo, cardinale Zurlo, già contrario al cardinal Ruffo, e divenuto dispettoso della fortuna, timoroso della potenza del nemico, indicando principal cagione delle sventure dello Stato, e non colonna, come si vantava nelle pastorali ma disfacitore e vergogna della religione e della Chiesa, lo aveva‑segnato di anatema. Ed il cardinale Ruffo, ciò visto, scomunicò il cardinale Zurlo, come contrario a Dio, alla Chiesa, al pontefice; al re. Si divisero le opinioni e le coscienze de' cherici; ma stavano i pietosi ed i buoni con Zurlo, i tristi e i ribaldi con Ruffo.

Se non che, distrutta per lo abuso delle armi la potenza delle opinioni, niente altro valeva che la forza. Tutte le province obbedivano al re; la sola città e piccolo cerchio intorno a lei si reggeva in repubblica. Ettore Caraffa con piccola mano di repubblicani, dopo aver combattuto all'aperto, e provveduto largamente alle provvigioni di Pescara, stava ritirato nella fortezza; i Francesi non movevano da Santelmo, Capua. Gaeta; le schiere della repubblica erano poche, le bande della Santa Fede innumerabili; avvegnaché all'amore per il re si univano le ambizioni e i guadagni di causa vincente, la impunità di colpe antiche, il perdono a chi aveva seguita e poi disertata la parte di repubblica. Sbarcarono in Taranto col maresciallo conte Micheroux intorno a mille fra Turchi e Russi, che, uniti e ubbidienti al cardinale, presero e taglieggiarono la città di Foggia, quindi Ariano, Avellino; e si mostrarono alla piccola terra detta Cardinale, ed a Nola. Mentre Pronio, che aveva arruolato sul confine di Abruzzo alcuni fuggitivi di Roma e di Arezzo, correva la campagna sino a vista di Capua; Sciarpa, richiamate alla potestà del re Salerno, Cava, e le altre città soggiogate poco innanzi dai Francesi, stava col nerbo delle sue bande a Nocera, Frà Diavolo e Mammone, uniti nelle terre di Sessa e Teano, aspettavano il comando a procedere. Le genti che assalivano la inferma repubblica erano adunque Napoletani, Siculi, Inglesi, Romani, Toscani, Russi, Portoghesi, Dalmati, Turchi; e nel tempo stesso correvano i mari del Mediterraneo flotte l'une all'altre nemiche e potentissime. La francese di venticinque vascelli, la spagnuola di diciasette, la inglese di quarantasette, in tre divisioni; la russa di quattro, la portoghese di cinque, la turca di tre, la, siciliana di due; e delle sete bandiere che ho indicate, le fregate, i cutter, i brick erano innumerabili. Stavano da una parte Francesi e Spagnuoli, settanta legni; stavano dalla opposta novanta o più. Si aspettava in Napoli per le promesse del Direttorio francese la flotta gallo‑ispana.

XXIX. Acciò le amiche navi arrivassero in porto sicuro ed utilmente alla repubblica, bisognava respingere o trattenere le truppe borboniane, che grosse venivano a stringere la città. Tenuto consiglio per la guerra, il generale Matera, napoletano, fuggitivio in Francia l'anno 1795, tornato in patria capo di battaglione, fatto generale della repubblica, valoroso ne' combattimenti, sciolto di morale e di coscienza, propose adunare in un esercito le milizie sparse in più colonne, accresciute di mille Francesi dei presidii delle fortezze, promesse a lui dal capo Megean a patto e prezzo di mezzo milione di ducati; forti perciò le squadre della repubblica per numero e per arte, andar con esse ad assalire la banda maggiore del cardinal Ruffo, distruggerla; imprigionare, se fortuna era proprizia, il porporato; e quindi volgere alle bande di Pronio, Sciarpa, Mammone, che troverebbero debellate prima dal grido che dalle ami. Stessero chiusi a guardia dei castelli i partigiani di repubblica; la città corresse la fortuna delle fazioni, sino a ché le medesime squadre repubblicane, vincitrici nella campagna, tornassero a lei per il trionfo, ed a castigo de' ribelli. La povertà dell'erario non faceva intoppo al disegno; chè se il governo ,(il generale diceva) mi fa padrone della vita e de' beni di dodici ricche persone che a nome disegnerò, io prometto deporre in due giorni nelle casse della finanza il mezzo milione per l'avido Megean, ed altri trecentomila ducati per le spese di guerra, «Cittadini direttori (conchiudeva), cittadini ministri e generali: alcune morti, molti danni, molte politiche necessità, che gli animi deboli chiamano ingiustizie, anderebbero compagne o sarebbero effetti de' miei disegni, e la repubblica reggerebbe; ma s'ella cadrà, tutte le ingiustizie, tutti i danni, morti innumerabili soprasteranno».

Inorridivano a quel discorso i mansueti ascoltatori: lasciar la città, le famiglie, i cittadini alla foga ed alle rapine de' Borboniani; concitare a delitti per poi punire; trarre, danaro senza legge o giustizia per forza di martorii da persone innocenti; crear misfatti, crear supplizi, erano enormità per gli onesti reggitori di quello Stato, disapprovate dal cuore, dalla mente, dalle pratiche lunghe del vivere e del ragionare. Cosicché tutti si unirono alla sentenza del ministro Manthonè: il quale, inesperto delle rivoluzioni, misurando al valor proprio il valore dei commilitoni, magnanimo, giusto, diceva che dieci repubblicani vincerebbero mille contrarii; che non abbisognavano i francesi, però che andrebbe Schipani contro Sciarpa, Bassetti contro Mammone e Frà Diavolo, Spanò contro de Cesare, egli medesimo contro Ruffo; e resterebbe in città ed in riserva il generale Wirtz con parte di milizie assoldate, con tutte le civili, e la legione calabrese. Mossero al dì seguente Spanò e Schipani.

XXX. Questi giunse alla Cava ed accampò: l'altro, battuto nei boschi e tra le strette di Monteforte e Cardinale, tornò in città scemo d'uomini; disordinato, con esempio e spettacolo funesto. Quindi Schipani, assalito giorni appresso nelle deboli ale della piccola schiera, senza retroguardo e senza speme di aiuto, pose il campo sulle sponde del Sarno. Il generale Bassetti, che uscì fuori in quei giorni, teneva sgombera di nemici la strada insino a Capua. Restavano ancora in città con le milizie del generale Manthonè le altre tumultuariamente coscritte; e si sperava nella legione di cavalleria, che il generale Roccaromana levava, come ho detto innanzi, a nome e spese della repubblica. Ma la speranza cadde, e si volse in cordoglio, avvegnaché il duca, visti i precipizi della repubblica, presentò con se medesimo le formate schiere al cardinal Ruffo, e militò sino al termine di quella guerra per la parte borbonica. Dura necessità di chi scrive istoria è il narrar tutti i fatti degni di ricordanza, o grati, o ingratissimi ano scrittore: dal che gli uomini apprendano non ischiavarsi il biasimo delle opere turpi che per la sola oscurità di condizioni o per rara ventura; non bastando a nasconderle A mutar de' tempi, o le generose ammende, o gli affetti amichevoli di chi narra, perciocché altri libri e memorie attestano la nascosta o trasfigurata verità; ed il benevole silenzio, non giovando all'amico, nuoce alla fede de' racconti.

XXXI. Vedevasi la città piena di lutto: scarso il vivere, vuoto l'erario, e perfino mancanti di aiuto i feriti. Ma due donne, già duchesse di Cassano e di Popoli, e allora col titolo più bello di madri della patria, andarono di casa in casa raccogliendo vesti, cibo, danaro per i soldati e i poveri che negli spedali languivano. Poté l'opera e l'esempio: altre pietose donne si aggiunsero; e la povertà fu soccorsa. Ma dechinava lo Stato: il cardinal Ruffo pose le stanze a Nola, e le sue torme campeggiavano sino al Sebeto; le altre di Frà Diavolo e di Sciarpa si mostrarono a Capodichina; non erano computate quelle genti, perciocché, vaganti e volontarie, passando d'una in altra schiera, coprivano la campagna disordinate e confuse; ma dicevi, a vederle, che non meno di quaranta migliaia costringevano la città. Schipani, assalito e vinto sul Sarno, passò al Granatello, piccolo forte presso Portici; Bassetti tornò respinto e ferito in Napoli; Manthonè, con tremila soldati, giunse appena alla Barra, e, dopo breve guerra, soperchiato da numero infinito, percosso dai tetti delle case, menomato d'uomini, tornò vinto. Tumultuava la città; messi di Castellamare annunziarono che, per tradimento, bruciava l'arsenale; ma poi seppesi che, sebben vera la iniquità, fu l'incendio, per zelo delle guardie e per venti che spiravano propizi, subito spento. Si udivano in città, nella notte, gridi sediziosi, e serpevano spaventevoli nuove di preparate stragi e di rovine.

Bando del governo prescrisse che al primo tiro del cannone dal Castelnuovo i soldati andassero alle loro stanze, le milizie civili agli assegnati posti, i patriotti ai castelli della città, i cittadini alle proprie case; che al secondo tiro, numerose pattuglie corressero le strade per sollecitare la obbedienza a que' comandi; e al terzo, fussero i contumaci dalle pattuglie medesime uccisi, stando il delitto nella disubbidienza, la pruova nello incontro per le vie, la giustizia nella salute della repubblica. Poscia tre nuovi tiri dal castello, non, come i primi, a lungo intervallo, ma seguiti, annunzierebbero la facoltà di tornare alle ordinarie faccende. Provato il bando nel seguente giorno, fu l'effetto come la speranza; grande il terrore, deserte le vie, mestissima, la faccia della città: città vasta e vuota è come tomba.

Schiere ordinate di Russi e Siciliani, secondate da stormi borbonici, assalirono in quel giorno medesimo, 11 di giugno, il forte del Granatello, intorno al quale attendavano le milizie di Schipani, mille uomini o poco meno; soccorsi da navi cannoniere che l'ammiraglio Caracciolo guidava con animo ed arte mirabile. Il campo non fu espugnato, il generale restò ferito, menomarono i soldati; accampò l'oste nemica incontro al forte. Cosicché nella notte, disposti da ambe le parti gli assalti e le difese, il generale Schipani, avendo stabilito di ritirarsi nella città, inviò tacitamente ai primi albori numerosa compagnia di Dalmati alle spalle dei Borboniani, che però sorpresi e sconcertati, diedero a Schipani opportunità di uscir dal campo, combattere, spingerli sino alla chiesa parrocchiale di Portici, e aver certa ritirata sopra Napoli. Ma in un subito que' Dalmati, spauriti o sedotti dalla mischia, mutando fede e bandiera, si unirono a' Russi, ed accerchiando la piccola tradita schiera de' repubblicani, dopo molte morti e ferite, arrecate, sofferte, la presero prigione.

XXXII. Ma il cardinale procedeva lentamente per meglio stimolare, all'aspetto di ricca città, le avide voglie delle sue turbe, alle quali aveva promesso licenza e sacco, e per aspettare il dì festivo già vicino di sant'Antonio; avvegnaché per i miracoli del sangue praticati in grazia di Championnet, di Macdonald, del Direttorio napoletano, caduta la credenza della plebe da san Gennaro, bisognavano al porporato altre religioni ed altro santo. E perciò al primo raggio del 13 di giugno, alzato nel campo l'altare, celebrato il sagrifizio dei cristiani, ed invocato sant'Antonio patrono del giorno, fece muovere contro la città tutte le torme della Santa Fede, stando lui a cavallo col decoro della porpora e della spada, in mezzo alla schiera maggiore, intesa a valicare il piccolo Sebeto sul ponte della Maddalena. Alle quali mosse, mossero incontro i repubblicani; prima sparando dal Castelnuo­vo i tre tiri del cannone per tener le vie della città sgombre di genti, e salve dalle insidie de' nemici interni.

Il generale Bassetti con piccola mano correva il poggio di Capodichina, minacciando, per le viste più che per l'armi, l'ala diritta dell'immensa torma che avanzava ne' fertili giardini della Barra. Il generale Wirtz con quanti poté raccogliere andò sul ponte, vi stabilì poderosa batteria di cannoni, e munì di combattenti e di artiglierie la sponda diritta del fiume: i castelli della città restarono chiusi co' ponti alzati. La legione calabra, divisa in due, guerniva il piccolo Vigliena, forte o batteria di costa presso l'edifizio de' Granili; e pattugliava nella città per impedire le insidie interne, e per ultimo disperato aiuto alla cadente libertà. I partigiani di repubblica, vecchi o infermi, guardavano i castelli; i giovani e i robusti andavano alla milizia, o formati a tumultuarie compagnie, o volontari e soli a combattere dove h guidava sdegno maggiore o fortuna. I Russi assalirono Vigliena, ma per grandissima resistenza bisognò atterrare le mura con batteria continua di cannoni; e quindi Russi, Turchi, Borboniani, entrati nel forte a combattere ad armi corte, pativano, impediti e stretti dal troppo numero, le offese dei nemici e de' compagni. Molti de' legionari calabresi erano spenti; gli altri, feriti né bramosi di vivere; cosicché il prete Toscani di Cosenza, capo del presidio, reggendosi a fatica perché in più parti trafitto, avvicinasi alla polveriera, ed invocando Dio e la libertà, getta il fuoco nella polvere, e ad uno istante con iscoppio e scroscio terribile muoiono quanti erano tra quelle mura oppressi dalle rovine, o lanciati in aria, o percossi da sassi: nemici, amici, orribilmente consorti. Alla qual pruova d'animo disperato, trepidò il cardinale, imbaldanzirono i repubblicani, giurarono d'imitare il grande esempio.

Con tali auguri stava Wirtz sul ponte, Bassetti su la collina, e uscì dal molo con lance armate l'ammiraglio Caracciolo, il cardinale co' suoi avanzava. Cominciata la zuffa, morivano d'ambe le parti; ed incerta pendeva la vittoria stando sopra una sponda numero infinito, e su l'altra virtù estrema e maggior arte. Tra guerrieri sciolti e volontari andava Luigi Serio, avvocato, dotto, facondo, guida un tempo ed amico all'imperatore Giuseppe II, come ho rammentato nel precedente libro; ma contrario al re Borbone per sofferta tirannide, bramoso anzi di morte che paziente alla servitù. Egli, avendo in casa tre nipoti, per nome De Turris, giovani timidi e molli, allo sparo della ritirata lor disse: Andiamo a combattere il nemico;» ed eglino, mostrando l'età senile di lui, la quasi cecità, la inespertezza comune alla guerra, la mancanza delle armi, lo pregavano di non esporre a certa ed inutile rovina sé e la famiglia. Al che lo zio: «Ho avuto dal ministro della guerra quattro armi da soldati e duecento cariche. Sarà facile cogliere alla folta mirandola da presso. Voi seguitemi: se non temeremo la morte, avremo almeno innanzi di morire alcuna dolcezza di vendetta». Tutti andarono. Il vecchio per grande animo e natural difetto agli occhi, non vedendo il pericolo, procedeva combattendo con le armi e con la voce. Morì su le sponde del Sebeto: nome onorato da lui, quando visse, con le muse gentili dell'ingegno, ed in morte col sangue. Il cadavere, non trovato né cercato abbastanza, restò senza tomba; ma spero che su questa pagina le anime pietose manderanno per lui alcun sospiro di pietà e di maraviglia.

XXXIII. Al dechinare del giorno ancora incerta era la fortuna su le sponde del piccolo fiume, quando il generale Wirtz, colpito e stramazzato da mitraglia, lasciò senza capo le schiere, senza animo i combattenti; ed al partir di lui su la bara moribondo, vacillò il campo, trepidò, fuggi confusamente in città. Ed allora i Borboniani ed i lazzari, dispregiando il divieto di autorità cadente, uscirono dalle case per andar armati contro la schiera del Bassetti; la quale, saputo la morte del Wirtz, la perdita del ponte ed il campo fugato, si ritirò, aprendosi il varco fra le torme plebee, nel Castelnuovo. Qui già stavano riparati e in atto di governo i cinque del Direttorio, i ministri e parecchi del senato legislativo, gli altri uffiziali o partigiani della repubblica si spartirono, secondo variar di senno, tra i castelli, le case, i nascondigli, o a drappelli armati nell'aperto. Molti che andarono al forte di Santelmo, ributtati dallo spietato Megèan, accamparono sotto le mura e nel vasto convento di San Martino. Caracciolo combatté dal mare per molta notte; e poi che i nemici si allontanarono dalla marina, tornò al porto. E mentre tali cose di buona guerra si operavano, due fratelli Baker e tre altri prigioni già condannati dal tribunale rivoluzionario furono archibugiati, come in secreto, sotto un arco di scala del Castelnuovo: supplizio crudele, perché nelle ultime ore del governo, senza utilità di sicurezza o di esempio. Non bastò il tempo, e fu ventura, a più estesi giudizi contro a' congiurati col Baker. La città intanto, priva di muri e di munimenti, sgombra di repubblicani e già piena de'contrarii, alzò grida di evviva per il re; ma le milizie assoldate, e quanto si poteva di truppe della Santa Fede, restarono fuori, tenute dal cardinale (non per carità della patria) per tema che le tenebre aiutassero preparate insidie del nemico. Voci dunque di gioia e luminarie, adulatrici e prudenti più che sincere, festeggiavano il ristabilito impero; e tiri di cannone da' castelli, o disperate uscite de' repubblicani turbavano le feste, uccidevano i festeggianti. Tetra notte per le due parti fu quella del 13 di giugno del 1799.

XXXIV. Al seguente mattino, assalito e preso dai Russi il forte del Carmine, vi morirono uccisi repubblicani e soldati, ed all'alzare della .bandiera borbonica su la torre, furono volte, sparando a guerra ed a festa, le artiglierie al Castelnuovo ed alle trincere del molo. Pose le stanze il cardinale a' Granili, accamparono le milizie ordinate della Santa Fede nelle colline che soprastanno alla città, le torme sciolte vennero al promesso spoglio delle case, e quante commettessero prede, atrocità, uccisioni dirò in altro luogo. Dalla opposta parte i repubblicani si affaticarono in quel primo giorno a munire le fronti offese dei Castelnuovo ed a sbarrare alcune strade della città; così che fossero ancora in repubblica i tre castelli Nuovo, dell'Uovo, Santelmo, il Palazzo, la casa forte di Pizzofalcone, l'ultima punta dell'abitato detta Chiaia. Durarono le batterie nei seguenti giorni: alcuni repubblicani, disertando, si giurarono al re; il comandante del castello di Baia invitò i Siciliani ad impadronirsene; due ufficiali fuggitivi dal Castelnuovo furono visti alzar trincere contro quel forte che dovevano per sacramento difendere; ma di cotesti colpevoli taccio i nomi, perché, pochi ed oscuri, più nocquero alla propria fama che alla repubblica; e perché in tanti mutamenti di Stato le tradigioni grandi e felici hanno coperto le minori, sì che oggidì la fede, il giuramento, i debiti di cittadino, le religioni di settario sono giuochi di astuzia, nutriti dal dispotismo, cui giovano tutte le bassezze della società più corrotta, di modo che il censo progressivo de' vizii e delle virtù civili dal 1799 sin oggi, mostrerebbe quell'anno il tempo meno triste del popolo napoletano: tanto di mese in mese i pubblici costumi degradarono.

Assalita la piccola ròcca di Castellamare da batterie di terra e dei vascelli siciliani ed inglesi, non cedé che a patti di andare il presidio libero in Francia, ciascuno portando i beni mobili che voleva, e lasciando sicuri nel regno le possedimenti e famiglie. Il sotto ammiraglio inglese Foote sottoscrisse per parti regie il trattato; e poscia il presidio, apprestate le navi, fu menato a Marsiglia. Nella guerra della città una stoltizia dei Borboniani, altra dei contrarii generarono pericolo gravissimo. Dal castello del Carmine tiravano, per ignoranza, palle infuocate contro i sáldi muri del Castelnuovo; ed una, fermata in piccola stanza su la cortina, apprese il fuoco a certi legni che, antichi ed oliati, rapidamente bruciarono. Sorgeva quella casetta presso il bastione della marina e stava in seno a questo la polveriera piena di polvere e di artifizi. Non potevano quelle fiamme, fuggenti verso il cielo, comunicar sotterra fuoco, scintilla o calor grave; ma si eccitò tanta paura e tumulto, che il presidio minacciava sforzar le porte del castello e fuggire; o se alcun calmar voleva le agitate fantasie, lo credevano disperato di vivere, uccisore crudele delle sue genti; il Toscani di Vigliena, sino allora di eroica fama, era citato in esempio di ferità. Cosicché tutti, sapienti, insapienti, posero mano all'opera, solleciti come soprastasse l'incendio della polveriera; e, benché lontana la fonte, fatto perenne il getto d'acqua per catena d'uomini, fu spento il fuoco. Ma tra mezzo allo scompiglio, il nemico, visto fumo d'incendio nel castello e rallentato lo sparo dei cannoni, si appressò alla via detta del Porto, e gettando parecchie granate alla porta della darsena la incendiò; aprì un varco al castello, ed entrava se avesse avuto maggior animo e miglior arte. Corsero i repubblicani al rimedio, e tumultuariamente sbarrarono quell'ingresso.

XXXV. Era concertata per la notte l'uscita dei repubblicani da san Martino e de' castelli dell'Uovo e Nuovo per distruggere batteria di cannoni alzata nella marina di Chiaia. Non erano i Francesi con loro, perché Megèan gia negoziava col cardinale il prezzo del tradimento, e i repubblicani, sospettandone, gli nascondevano le mosse e le speranze. Al battere della mezzanotte, ora fissata ad uscire, muovono le tre partite, e quanti incontrano soldati della Santa Fede spietatamente uccidono, perciocché il far prigioni era danno al segreto ed alle piccole forze della impresa; vanno tanto sospettosi che due avanguardi, credendosi nemici, si azzuffano; ma ratto scoprendosi, e commiserando insieme la morte di un compagno, giurano vendicarla su i nemici. Procedono, sorprendono ed uccidono le guardie della batteria, inchiodano i cannoni, bruciano i carretti e tornano illesi ai loro posti, disegnando altre sortite e giurando di morire nei campi. Il romore della pesta, i lamenti e i gridi alla uccisione dei Borboniani, annunziando pericolo (ma incerto) nel campo russo, nei campi della Santa Fede e nelle stanze del cardinale, tutti batterono all'arme, tenendo schierate le truppe sino al giorno, mentre il codardo porporato divisava tirarsi addietro di molte miglia.

E pensieri più aspri lo agitavano. Null'altro sapevasi della flotta galloispana fuor che navigava nel Mediterraneo; e benché flotte maggiori e nemiche girassero nel mare istesso, era incerto lo scontro, e negli scontri la fortuna de' combattimenti. Molte città sospiravano ancora la repubblica; e delle città regie parecchie si scontentavano per la crudeltà delle genti della Santa Fede. Le promesse dei premii cadevano; menomavano le torme, però che i meno avari, saziata l'avidità, volean godere vita oziosa e sicura. E finalmente avendo a fronte gente animosa e disperata, il cardinale temeva per sé e per gli statichi (tra i quali un suo fratello) custoditi nel Castelnuovo. Nelle veglie angosciose di quella notte, decise mandar legati al Direttorio della repubblica per trattar di pace; e a giorno pieno, meglio computate le morti e i danni della sortita, le fughe, lo sbalordimento nei suoi campi, uditi a consiglio i capi delle truppe e i magistrati del re, tutti proclivi agli accordi, inviò messaggio a Megèan con le proposte di accomodamento convenevole ai tempi, alla dignità regia ed a causa vinta. Gli ambasciatori di Ruffo ed un legato di Megèan riferirono quelle profferte al Direttorio della repubblica.

XXXVI. Qui erano maggiori e più giuste le inquietudini; ma l'offerta di pace le consolò, altri credendo diserzioni o ribellioni nei campi della Santa Fede, altri vittorie francesi nella Italia, ed il maggior numero vicina e vincitrice la flotta gallo‑ispana. Risposero che a governi liberi non era lecito concedere o rigettare senza consultazioni, che il Direttorio consulterebbe. Frattanto a preghiere del legato di Megèan fu concordato armistizio di tre giorni; ed il ministro Manthonè, al partire degli ambasciatori, disse a' Borboniani che se il cardinale nella tregua non sapesse frenare le sue genti, egli uscendo dal forte impedirebbe le crudeltà, le rapine, il sacco infame della città. Rimasti soli, consultavano; e a poco a poco, dubitando delle immaginate felicità, inchinavano gli animi agli accordi. Manthonè, solo fra tutti, proponeva partiti estremi e generosi, pari al suo cuore, non pari alle condizioni della repubblica. Oronzo Massa, generale di artiglieria, chiamato a consiglio, e dimandato dello stato del castello, rispose il vero così: «Siamo ancora padroni di queste mura, perché abbiamo incontro soldati non esperti, torme avventicce, un cherico per capo. Il mare, il porto, la darsena son del nemico; l'ingresso per la porta bruciata è inevitabile; il Palazzo non ha difesa dalle artiglierie, la cortina verso il nemico è rovinata; infine, se, mutate le veci, io fossi assalitore del castello, saprei espugnarlo in due ore». Replicò il presidente: «Accettereste voi dunque la pace?» ‑ «A condizioni, rispose, onorate per il governo, sicure per lo Stato, l'accetterei».

Si consumava la tregua, la Gallo‑Ispana non appariva, le forze repubblicane menomavano per diserzioni, dechinavano di proponimenti. Nella seconda notte fu rifatta la distrutta batteria di Chiaia, ed altra nuova se ne formò nella via del Porto; ma, per lamentanze e minacce del Direttorio, sospese le opere, il cardinale accertò che, se al di vegnente non si fermava la sperata pace, egli farebbe abbattere quelle trincere, alzate, non per suo comando, per foga dei soldati. I repubblicani, riconsultando, passate a rassegna e cadute le speranze maggiori (prolungar l'assedio sino all'arrivo degli aiuti stranieri, o vincere all'aperto, o farsi varco tra' nemici per unirsi ai Francesi di Capoa), vedendo facile il morire, impossibile la vittoria, e volendo serbar se stessi e mille e mille ad occasioni più prospere per la repubblica, distesero in un foglio le condizioni di pace, ed elessero negoziatore lo stesso general Massa, che aveva sostenuto nei congressi la opinione per gli accordi. Oronzo Massa, di nobile famiglia, ufficiale nei suoi verdi anni di artiglieria, volontariamente ritirato quando il governo, l'anno 1795, volse a tirannide, si offri soldato alla repubblica, e fu generale facondo, intrepido e di sensi magnanimo. A mai grado accettò il carico; ed uscendo dalla casa del Direttorio, incontrando me che scrivo, nella piazza del forte, mi disse a quale uffizio egli andava, soggiungendo: «I patti scritti dal Direttorio sono modesti; ma il nemico, per facilità superbo, non vorrà concedere vita e libertà ai capi della repubblica; venti almeno cittadini dovranno, io credo, immolarsi alla salute di tutti, e sarà onorevole al Direttorio ed al negoziante segnare il foglio dove avremo pattovito, per il vivere di molti, le nostre morti».

XXXVII. Convennero nella casa del cardinale i negoziatori. E poiché il Direttorio aveva dichiarato che non confiderebbe nel solo re Ferdinando e nel suo vicario, fu necessità unire al trattato i condottieri de' Moscoviti e dei Turchi, l'ammiraglio della flotta inglese, H comandante Megèan. Parvero al cardinale troppo ardite le domande dei repubblicani; ma, per i discorsi del general Massa, non audaci, sicuri, e per i proponimenti terribili ch'egli svelava: usar degli statichi alle maniere antiche, abbattere, bruciare le case della città, ripetere l'eroismo di Vigliena in ogni castello o in ogni edifizio, dechinò la superbia dei porporato; il quale mormorando co' suoi ch'egli avrebbe rimproveri dal re se trovasse in rovina Napoli sua, chiese che, tolti dal trattato i concetti e le parole oltraggiose alla dignità regale, scenderebbe a' pretesi patti. E aderendo il general Massa, fu scritta la pace in questi termini:

« 1. I castelli Nuovo e dell'Uovo, con armi e munizioni, saranno consegnati ai commissari di S.M. il re delle Due Sicilie, e de' suoi alleati l'Inghilterra, la Prussia, la Porta Ottomana.

«2. I presidii repubblicani dei due castelli usciranno con gli onori di guerra, saranno rispettati e guarentiti nella persona e ne' beni mobili ed immobili.

«3. Potranno scegliere d'imbarcarsi sopra navi parlamentarie per essere portati a Tolone, o restare nel regno, sicuri d'ogni inquietudine per sé e per le famiglie. Daranno le navi i ministri dei re.

«4. Quelle condizioni e quei patti saranno comuni alle persone de' due sessi rinchiuse ne' forti, a prigionieri repubblicani fatti dalle truppe regie o alleate nel corso della guerra, al campo di san Martino.

«5. I presidii repubblicani non usciranno dai castelli sino a che non saranno pronte a salpare le navi per coloro che avranno eletto il partire.

«6. L'arcivescovo di Salerno, il conte Micheroux, il conte Dillon e il vescovo di Avellino resteranno ostaggi nel forte di Santelmo sino a che non giunga in Napoli nuova certa dell'arrivo a Tolone delle navi che avranno trasporato i presidii repubblicani. I prigionieri della parte del re, e gli ostaggi tenuti ne' forti, andranno liberi dopo firmata la presente capitolazione».

Seguivano i nomi di Ruffo e Micheroux per il re di Napoli, di Foote per l'Inghilterra, di Baillie per la Russia, e di ... per la Porta; e per la parte repubblicana, di Massa e Megèan.

XXXVIII. Ne' di seguenti furono apprestate le navi. Un foglio del cardinale invitò Ettore Caraffa, conte di Ruvo, a cedere le fortezze di Civitella e Pescara alle condizioni dei castelli di Napoli; ed un suo editto da vicario del re bandiva esser finita la guerra, non più ave ' re il regno fazioni o parti, ma essere tutti i cittadini egualmente soggetti al principe, amici tra loro e fratelli; volere il re perdonare i falli della ribellione, accogliere per fino i nemici nella bontà paterna, e perciò finissero nel regno le persecuzioni, gli spogli, le pugne, le stragi, gli armamenti. Ma pure taluni, o veggenti o increscevoli del reggimento borbonico, vennero a dimandare imbarco; e su le navi che erano preste, imbarcarono. Del campo di san Martino pochi rimasero in città, molti andavano in Francia; e così, uscendo dai castelli coi pattoviti onori, i due presidii si spartirono tra 'l rimanere (ed erano pochi) e il partire. Non mancava dunque a salpare che il vento, sperato propizio nella notte.

Quando, visto il mare biancheggiar di vele, fu creduto l'arrivo della Gallo‑Ispana; e perciò tra i repubblicani imbarcati scoppiò cordoglio comune e rimproveri vicendevoli; andò più alto la fama di Manthonè, il quale aveva sempre biasimato la resa de' castelli, e chiamato viltà in, qualunque infima sorte darsi schiavo al nemico, quasi mancasse la libertà del morire; ma erano quelle navi dell'armata di Nelson, che arrivò al golfo prima che il sole tramontasse. Nella notte levatosi favorevole vento a navigare per Francia, i preparati legni non salparono, ed al vegnente giorno, mutando luogo nel porto, andarono sotto al cannone del castel dell'Uovo, tolti i timoni e le vele, gettate le àncore, messe le guardie, trasformate le navi a prigioni; e di che gl'imbarcati, maravigliando e temendo, chieste spiegazioni all'ammiraglio Nelson, il vincitore di Aboukir non vergognò cassare le capitolazioni, pubblicando editto del re Ferdinando che dichiarava: «i re non patteggiare co ' sudditi; essere abusivi e nulli gli atti del suo vicario; voler egli esercitare la piena regia autorità sopra i ribelli”. E dopo quel bando, andarono alle navi commissari regii per trarne i designati (ottantaquattro), che, a coppie incatenati, e a giorno pieno, per le vie popolose della città, furono menati, con spettacolo misero e scandaloso, alle prigioni di quei medesimi castelli ch'essi poco innanzi, ora gl'Inglesi guernivano. Altri degli imbarcati, non eccitando, per la oscurità de' nomi e de' fatti, la vendetta di que' superbi, o bastando a vendetta l'esilio, andarono su le navi medesime a Marsiglia. Il conte di Ruvo, cedute le fortezze di Pescara e Civitella, e venuto con altri parecchi del presidio ad imbarcarsi, com'era statuito nei patti della resa, furono menati spietatamente nelle carceri. Alle quali pruove di crudeltà e d'ingiustizia, i Borboniani, i lazzari, le torme della Santa Fede, già impazienti e sdegnosi de' trattati e degli editti di pace del cardinale, ora, scatenati, tornarono alle mal sospese ferità; ed il Ruffo, timoroso di que' tristi e della collera del re, taceva e secondava.

XXXIX. Cederono l'un dietro l'altro, sotto finte di assedio, Santelmo, Capua, Gaeta. Comandava Santelmo, come innanzi ho detto, il capo di legione francese Megèan, che da più giorni mercanteggiava la resa del castello; ed è fama non contraddetta che l'avidità di lui, scontentata dalle tenui offerte di Ruffo, si volgesse, per patti migliori agl'Inglesi; ma, ributtato, fermò col primo; e stabilirono:

Rendere il castello a S.M. Siciliana e suoi alleati; esser prigioniero il presidio, ma tornando in Francia, sotto legge di non combattere sino al cambio; uscir dal forte con gli onori di guerra, consegnare i sudditi napoletani, non a' ministri del re, ma degli alleati.

Ed al seguente giorno, consegnato il castello, uscendone il presidio, furono visti i commissari della polizia borbonica correre le file francesi, scegliere e incatenare i soggetti napoletani; e dove alcuno sfuggiva la vigilanza di que' tristi, andar Megèan ad indicarlo. Erano uffiziali francesi, benché nascessero nelle Sicilie, Matera e Belpulsi; e pur essi vestiti della divisa di Francia, furono dati agli sbirri di Napoli. I ministri de' potentati stranieri, come che presenti, tacevano, mancando a' patti della resa, i quali ponevano quei miseri nella potestà degli alleati. Era tempo d'infamie.

Cedé, poco appresso, come io diceva, la fortezza di Capua, indi Gaeta. Le condizioni furono le medesime di Santelmo, lo scandalo minore; avvegnaché non erano tra le file francesi, o si nascosero, i malaugurati soggetti del re delle Due Sicilie. Imbarcarono i Francesi; e sopra tutte le rócche sventolava la bandiera de' Borboni; comandava il regno, luogotenente del re, il cardinal Ruffo; le città, le terre, i magistrati gli obbedivano. Tutto dunque cessò della repubblica, fuorché, a maggior supplici degli animi liberi, la memoria di lei, e lo spavento dei presenti tiranni.

 

 

 

Manda un messaggio