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Clorinda Irace
E.F.P
Le tracce, i luoghi
Sulle orme di Elonora de Fonseca Pimentel
tra strade e palazzi napoletani |
All’ombra del Vesuvio
Duecento anni fa…
“Forse un giorno gioverà ricordare tutto questo”
ultime, profetiche parole di Donna Lionora, come era solita indicarla quel popolo
cui lei tanto si dedicò. L'essenza della rivoluzione napoletana del 1799 si può
racchiudere in questa breve frase pronunciata in latino (è un verso virgiliano)
sul patibolo: successivamente, infatti, quel sacrificio di tante vite umane
indicò la via di uscita che la città, il Regno, l'Italia tutta doveva
intraprendere. La indicò attraverso gli errori, le grandi speranze, l'immenso
entusiasmo di giovani menti illuminate.
Tutto cominciò quando Napoleone decise di esportare
la rivoluzione all'estero e iniziò la costruzione delle repubbliche “sorelle”
fuori della Francia: per gli Italiani, divisi tra Austriaci e Borbone, fu
facile divenire Giacobini ed entusiasmarsi per gli ideali che avevano animato
la rivoluzione d'Oltralpe. C'era un errore di fondo, tuttavia. Nella Francia di
Napoleone i Giacobini, quelli veri, non
contavano più. A contare era un Direttorio vorace economicamente e moderato
politicamente che vedeva negli Stati satelliti solo una fonte di lucro. La
Repubblica napoletana per i Francesi fu questo e null'altro. Championnet, che
forse si lasciò realmente attrarre dall'entusiasmo dei Napoletani, fu
prontamente richiamato in patria e sanzionato.
Al suo posto furono inviati emissari di quel
Direttorio capace solo di esigere tributi onerosissimi dalla Repubblica,
indifferente dinanzi al fatto che il Re e la Regina, prima di lasciare Napoli,
avessero svuotato le casse dello Stato. A nulla valse neppure la deputazione di
membri del governo repubblicano che si recò a Parigi per negoziare e chiedere
alla Francia di proclamare l'indipendenza della Repubblica: c'erano uomini
ottimi come Girolamo Pignatelli, Marcantonio Doria, Leonardo Panzini e
Francescantonio Ciaia ma non furono manco ricevuti dai Francesi e, come ci
racconta Benedetto Croce, furono costretti al rientro in Italia.
Nonostante ciò, i Napoletani andarono avanti.
Guardiamoli, questi eventi del 1799: da quel 21
gennaio, giorno in cui fu proclamata la Repubblica e una bandiera cucita in
fretta e furia a Castel Sant'Elmo sventolò, fu tutto un fervore di riunioni,
proclami leggi, provvedimenti, assemblee, progetti. Il 23 gennaio, Championnet
sbarcò e riconobbe la Repubblica napoletana che, si noti, era stata fatta dai
Napoletani. Capo del Governo provvisorio fu Carlo Lauberg, giornalista responsabile
del “Monitore napoletano” Eleonora Fonseca Pimentel, Francesco Caracciolo ebbe
il compito di guidare la flotta, Gennaro Serra quello di formare una Guardia
Nazionale, altri di lavorare ad una Costituente, altri ancora di trasformare
gloriose e teoriche idee in realtà. Ma non durò molto. Già il 7 febbraio 1799
il Cardinale Fabrizio Ruffo iniziò dalla Calabria a reclutare uomini per il suo
esercito della Santa Fede. Un quadro di un ignoto del Settecento ci mostra il
Cardinale che consegna il vessillo della Santa Fede alle sue bande, scalmanati
velleitariamente definiti esercito. La loro avanzata fu veloce, anche in
un'epoca in cui i viaggi duravano molto: già ai primi di marzo occuparono
Catanzaro, Cosenza, Crotone. Intanto il 25 aprile la Repubblica abolì diritti e
privilegi feudali, mentre si formulavano catechismi rivoluzionari, per fugare
le voci che tacciavano i Giacobini di ateismo e di immoralità. Ma l'atmosfera
era sempre più incandescente: la maggioranza dei soldati francesi presenti a
Napoli, il 7 maggio si diresse verso Nord, calamitata dalle guerre che la
Francia era costretta a combattere con le potenze europee.
Il 10 maggio 1799 l'esercito di Ruffo riuscì ad
espugnare Altamura in Puglia: un quadro di Michele Cammarano databile intorno
alla metà dell'Ottocento ci conduce nel vivo illustrando ‑ appunto ‑
la battaglia, “La strage di Altamura che dà il titolo all'opera.
Siamo oramai verso la fine, ma ciò non impedi al
Governo rivoluzionario di organizzare una sorta di “Monitore” in dialetto per
rivolgersi ai popolani. Intanto, San Gennaro, ancora una volta, fece il suo
miracolo.
E’ un altro quadro che ci conduce verso il dramma
finale: '“L'ingresso del Cardinale Ruffo a Napoli” di Giovanni Ponticelli,
pittore della seconda metà dell'Ottocento. La tela ci mostra una folla di
lazzari festosi che accoglie il Cardinale e i suoi uomini: siamo a quella
fatidica prima decade di giugno che vedrà il crollo del forte di Vigliena,
l'ingresso in città dell'Armata Sanfedista il 13 giugno, le stragi, gli arresti,
la fama della capitolazione poi violata. Ruffo aveva preteso una possibilità di
salvezza per i patrioti, obbligati, tuttavia, ad imbarcarsi per la Francia
insieme ai rimanenti soldati francesi. Questo accordo, in oltraggio a qualunque
principio etico, fu spudoratamente annullato dal re che, tornato a Napoli dalla
Sicilia nei primi giorni di luglio, non esitò a dare inizio alla carneficina.
E’ ancora un dipinto della seconda metà dell'Ottocento, realizzato da Giuseppe
Boschetto, che rievoca il pathos di un'esecuzione. Si tratta di “La Pimentel
condotta al patibolo” in cui l'autore raffigura la mesta condannata attorniata
da una folla di curiosi e dai sacerdoti della Compagnia dei Bianchi, in quella
Napoli che tanto amò e che idealizzò fino alla fine rivolgendole accorate
parole in latino. Forsan haec olim meminisse juvabit.
Il trasferimento delle famiglie portoghesi Pimentel
de Fonseca e Lopez de Leon da Roma a Napoli avvenne l'otto settembre 1760 in seguito
alle vicende politiche del tempo che segnarono il destino di molte famiglie
legate al mondo curiale. La famiglia di Lenor, infatti, subì gli adatti emanati
dall'ambasciatore portoghese a Roma che prevedevano l'allontanamento dallo
Stato della Chiesa di tutti i Portoghesi in seguito ai dissidi tra la Curia
romana e la Corte di Lisbona, dissidi dovuti alla cacciata dei Gesuiti dal
Portogallo. Napoli, secondo le indicazioni di uno zio abate, il famoso “Tio
Antonio” citato e amato da Eleonora, apparve subito la meta ideale, perché
quasi “Spagnola” e ieri come oggi ‑ molto ospitale verso gli stranieri.
Immaginare un trasferimento da una città all'altra nel Settecento per
noi oggi può essere molto divertente perché i tempi di spostamenti, che a noi
uomini del Duemila appaiono risibili, erano lunghissimi e le modalità, in
un'era non tecnologica, erano estremamente complesse e scomode. Basti pensare
che per giungere a Napoli da Roma le due famiglie, in una scomoda diligenza,
impiegarono un intero giorno partendo alle prime luci dell'alba. Nel suo “La
vita quotidiana in Italia nel Settecento” Maurice Vaussard ci riferisce che nel
nostro Paese, a quell'epoca, si
viaggiava “molto ma malissimo” e ciò trova conferma nei tanti diari di viaggio
degli stranieri, puntualmente affascinati dal paesaggio ma infastiditi dai
disagi e dalla precarietà dei mezzi di trasporto e delle mediocri locande.
D'altra parte, gli alberghi allora non avevano ragione di esistere poiché i
nobili che si mettevano in viaggio erano soliti godere dell'ospitalità di altri
nobili che nei loro grandi palazzi disponevano di ampi spazi. Viceversa, la
gente comune alloggiava nei conventi. Ne consegue che le poche locande
disponibili erano piuttosto modeste e, per giunta, gli albergatori cercavano di
imbrogliare il turista sprovveduto. Analoga cosa facevano coloro che fittavano
cavalli e carrozze e solo i viaggiatori più attenti ricorrevano alle cosiddette
'lettere di cambiatura” e assistevano stupiti all'immediato ridimensionamento
dei prezzi. Tuttavia, nonostante i disagi per giungervi, in Italia molti
stranieri soggiornavano a lungo per la dolcezza del clima e per la bellezza del
paesaggio. A ciò vanno aggiunte anche motivazioni di ordine economico poiché
trovare alloggi prestigiosi, abbondante servitù, vita mondana era piuttosto
facile e a buon mercato: nel 1789 Arthur Young scriveva che si viveva meglio in
Italia con una rendita di 100 sterline che a Londra con 500. Napoli, in questo
senso era una tappa d'eccezione perché offriva i divertimenti di una capitale,
bellezze incomparabili, scoperte archeologiche uniche al mondo e grande
apertura verso lo straniero. Persino le locande napoletane apparivano al Conte
di Caylus accettabili rispetto a quelle di altre città. Egli definirà l'alloggio
TRE RE in cui dimorò “pessimo ma buono per il Paese “.
Per entrare nel Regno di Sicilia il viaggiatore doveva oltrepassare il
confine (l'Italia non era unita) posto vicino Terracina, dove terminava lo
Stato della Chiesa. Per la giovane Portoghesina di otto anni compiuti, il segno
più evidente dell'ingresso nel nuovo Stato fu, probabilmente, la diversa
parlata dell'ufficiale che controllò i documenti alla frontiera Possiamo
ipotizzare che il percorso verso Napoli proseguì da Terracina al Circeo, dal Circeo
a Capua e a Caserta di cui sicuramente intravide subito la bella reggia.
Possiamo anche immaginare che la vista del Vesuvio ‑ ieri come oggi
emblema della città - fu per i
viaggiatori il segno della imminente fine del lungo viaggio.