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Clorinda Irace
E.F.P
Le tracce, i luoghi
Sulle orme di Elonora de Fonseca
Pimentel tra strade e palazzi napoletani |
Largo Rosario di Palazzo:
l’addio ai sogni
Questa casa, che Eleonora abitò dal 1776, é ubicata all'attuale
civico n° 17, sempre nell'area dei Quartieri Spagnoli. Il fabbricato era di
proprietà di Don Gennaro Pironti duca di Campagna. Striano ci descrive una
cucina buia con le vecchie mattonelle a fiori verdi e un salotto per ricevere
senza grandi pregi, con un tavolo rotondo su cui Lenor poggia un vaso di
cristallo con fiori di seta. Da questa casa uscì sposa nel febbraio dei 1778,
in una mattinata che secondo Striano [*1] fu gelida e ventosa, forse per presagire l'infelicità che quel
matrimonio porterà alla sposa. Come risulta dagli atti del processo di separazione[*2], l'unione durò pochissimo e nel 1785 la poveretta poté finalmente far
ritorno in questa dimora, affidata al padre, Don Clemente che l'assisté
moralmente e materialmente, preparando la causa di separazione e assumendone la
rappresentanza in giudizio. La casa, purtroppo, di lì a poco fu teatro della
morte di Don Clemente avvenuta il 14 maggio 1785 e Lenor, temendo la
solitudine, chiese al giudice di potersi trasferire presso gli zii materni
abitanti ancora alla Platea della Salata.
Inaspettatamente,
il marito ‑ che doveva rilasciare l'autorizzazione ‑ fu
consenziente e decise in quell'occasione di sospendere le ostilità e di
riconoscere ad Eleonora lo status di “donna onestissima e di irreprensibili
costumi” ponendo così fine al loro matrimonio con l'archiviazione del processo.
A proposito di questo penoso processo, leggendo gli atti custoditi all'Archivio
di Stato di Napoli, non si può far a meno di notare la tracotanza e la
spavalderia di Don Pasquale Tria che, utilizzando ogni sorta di menzogna ‑
comprese testimonianze palesemente false - riuscì persino ad argomentare le sue
presunte ragioni, forte di vivere in un'epoca in cui i diritti delle donne
erano del tutto misconosciuti. Tra i suoi testimoni sfilò un bel po' del
popolino con cui era solito intrattenersi: dal suo barbiere, Pasquale Buono,
alle amiche dell'amante, Angela Veronica, di professione “cuffiara”. Il sarto
da donna Giovanni Polker, dichiarò che “Donna Leonora non si preoccupava
d'altro che di leggere e conversare fino alle sette di notte, vivere
capricciosamente senza badare alla casa e al marito[*3]”.
Era stato indubbiamente furbo, Don Pasquale a
spostare la discussione sul “pericoloso” terreno della cultura di Eleonora, dei
suoi libri “blasfemi' che gli ambienti filoborbonici partenopei guardavano con
tanto sospetto. Lo stesso giudice Tontulo, uomo illuminato e amante delle
lettere, avrebbe avuto qualche difficoltà ad emettere la sentenza finale.
Tantopiù che Don Pasquale, animato da “cristiani sentimenti chiedeva al Re che
facesse rinchiudere in un chiostro la sua ex moglie “per moderare i suoi
costumi ed apprendere i suoi doveri[*4]”. All'epoca infatti, numerosi monasteri fungevano da case di
correzione femminili per reati come l'adulterio: fortunatamente, come si è
detto, il processo fu archiviato.
Certamente, per noi ‑ donne ed uomini del Duemila ‑ il modo
di concepire il fidanzamento nel passato può apparire incredibile. Tuttavia,
bisogna comprendere che, almeno per i ceti altolocati, nei secoli che stiamo
trattando era estremamente importante garantire la conservazione di status,
patrimoni, talvolta di successioni. Per questi motivi, dunque, raramente una
ragazza aveva la possibilità di scegliere il partner e, perlopiù, la
“valutazione” della persona da designare come futuro sposo era affidata ai
genitori che, considerati titoli, patrimoni, credenziali, “combinavano” il
matrimonio “guardando agli interessi e alle strategie politiche ed economiche
della famiglia “ come affermano gli storici francesi ne “La storia delle
donne”. Ovviamente, nel Settecento era d'obbligo scegliere il coniuge in base
alla classe sociale e ‑ come nel caso di Eleonora ‑ una donna
nobile doveva necessariamente optare per un altro nobile poiché la legge
prevedeva che la moglie assumesse la condizione del marito e non era
accettabile una “retrocessione” nella scala sociale. Il ruolo del marito era
quello di provvedere al mantenimento della famiglia, quello della moglie di
“signora della casa” capace di dirigere la servitù e di educare la prole. Dai
libri dell'epoca si apprende come per le nobildonne il futuro matrimonio delle
figlie fosse una vera preoccupazione: bisognava preparare la futura sposa ad
essere una buona padrona di casa il che includeva abilità come il saper
vestire, parlare, dirigere la servitù, danzare, ricamare, suonare uno strumento
musicale, parlare Francese, insomma, la madre doveva trasmettere alla figlia il
codice del mondo in cui vivevano[*5]. A tutte
queste regole sociali, inevitabilmente, corrispondeva un vero e proprio
“deserto sentimentale” tra le mura domestiche. D'altra parte, la società del
Settecento aveva i suoi rimedi, poiché vi era, specie nelle classi alte, una
generalizzata tolleranza per le relazioni extra‑coniugali sia maschili,
sia femminili. Ovviamente, per le donne la comprensione era minore ma non
preclusa. In Inghilterra, gli amanti pagavano, addirittura, un “forte compenso”
ai mariti traditi delle loro innamorate i quali spesso costruivano vere e
proprie fortune sull'infedeltà delle loro consorti. Nella famosa “Così fan
tutte” di Mozart, il cui libretto fu scritto nel 1790 da Lorenzo da Ponte,
ascoltiamo: “giovani, vecchie, belle, brutte... così fan tutte!” L'Italia,
tradizionalmente moralista, fa eccezione alla regola e istituzionalizza
l'adulterio femminile legittimando la figura del cicisbeo, accompagnatore
ufficiale della nobildonna da lui divisa con il consenziente marito. L'usanza
era “importata” dalla Spagna e pare che a Napoli non avesse molto attecchito
come dimostrano gli atteggiamenti gelosi e sospettosi di Pasquale Tria che sono
tramandati dagli atti del processo. Tuttavia, nel resto del Paese, la pratica ebbe una certa
diffusione tanto che si possono ancora
oggi leggere commenti nella nostra
letteratura. Carlo Goldoni nella commedia
“La vedova scaltra” fa a tal proposito un'interessante osservazione
“persona più utile ad un buon marito
suole essere il cicisbeo perché lo solleva da molti pesi”. Non mancano, tuttavia, nelle medesima
epoca voci di forte dissenso riguardo a
questa “moda” diffusa tra gli aristocratici: è il caso di Giuseppe Parini che ne “Il Giorno” non esita a condannare
duramente l'usanza rivolgendo al giovin signore di cui é precettore questi accorati versi “Siede al
fianco di lui l'altrui cara consorte
... allontana i maligni e tronca gli
indugi... e tempo è ormai che in più degno
di pubblico agone splendano i genj tuoi”. C’è da aggiungere, tuttavia,
che fu proprio l'Illuminismo diffusosi anche in Italia nella seconda metà
del Settecento, ad ammodernare certe
pratiche famigliari, sottolineando la necessità di abolire i matrimoni di interesse e le preclusioni classiste.
Tornando alle nozze di Eleonora,
bisogna notare che per quanto colta e
spregiudicata, ella viveva in un contesto aristocratico tradizionalista in cui
una ragazza venticinquenne ancora nubile destava preoccupazioni in famiglia:
sarà lei stessa, nella già citata testimonianza, ad affermare che il padre,
preoccupato della sua condizione di non sposata, combinò le nozze con Tria. Le
nozze furono sfarzose, per volontà dello sposo che se ne accollò l'onere
economico contraendo debiti mai pagati e il banchetto si svolse a Palazzo Tria
alla Pignasecca. Prima ancora di pranzare, molto probabilmente, secondo
l'usanza del tempo, gli sposi mostrarono agli ospiti i doni di nozze. L'elenco
è giunto fino a noi grazie agli atti del processo:
Sei spilloni di
smeraldi e diamanti, dono dal marito;
uno spillone fatto a
girasole di smeraldi e girato di pozzetti, dono del cognato;
una toletta
d'Inghilterra, dono del cognato;
una fila di perle
grandi dono della nonna di Lenor;
due smanigli e
braccialetti coi ritratti dei sovrani incastonati in oro, loro dono;
un paio di rosette
grandi con smeraldi e brillanti;
un anello con tre
pozzetti regalato dal padre;
un anello con topazi
e brillanti intorno;
un saligiuno
d'argento con sua tazza di Sassonia, dono di uno zio.
Quanto al dono dello sposo alla sposa, bisogna rilevare che Don
Pasquale non pagò mai i gioielli cheregalò alla moglie: l'argentiere Morsoni
gli inviò un atto esecutorio, di 600 Ducati che Eleonora pagò con soldi
prelevati dalla sua dote sempre “per l'onore della famiglia[*6]”.
A questo proposito, val la pena ricordare che nel Settecento Napoli era
patria di eminenti artigiani orafi già allora attivi nell'odierno Borgo Orefici
che producevano per le ricche dame partenopee “diademi per capelli, orecchini,
spille e talvolta una collana e “piogge” di brillanti e spilloni per i capelli
a forma di aigrettes scintillanti[*7]”. Tra
tutti i gioiellieri attivi in città primeggiava Michele Lofrano gioielliere
della Casa reale, autore di tutti i gioielli dei reali e dei loro amici.
[*1] Enzo Striano Il resto di niente” Loffredo, 1996
[*2] Atti del processo di separazione. Archivio di Stato di Napoli, fascio 133, fasc. 43.
[*3] Atti del processo di separazione. Archivio di Stato di Napoli, fascio 133, fasc. 43.
[*4] Atti del processo di separazione. Archivio di Stato di Napoli, fascio 133, fasc. 43.
[*5] Duby‑ Perrot. Storia delle donne. Laterza, 1991
[*6] Archivio di Stato di Napoli. Atti del processo di separazione
[*7] Angela Catello ‑ il gioiello napoletano nel Settecento – in AA.VV, Settecento napoletano, vol. 1