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Clorinda Irace
E.F.P
Le tracce, i luoghi
Sulle orme di Elonora de Fonseca
Pimentel tra strade e palazzi napoletani |
Palazzo Tria alla Pignasecca:
moglie e madre
Uscita sposa dalla parrocchia di Sant'Anna di Palazzo,
Eleonora entrò ufficialmente nella sua nuova dimora, Palazzo Tria alla
Pignasecca in un'abitazione posta al piano nobile, tuttora visibile. Tale
palazzo è da Franco Schiattarella nel suo libro “La marchesa giacobina”
indicato come quello contrassegnato dal n° civico 63: attualmente, a quel
civico vediamo un edificio che mostra poco del suo passato probabilmente per le
numerose aggiunte successive. Nessuna targa segnala l'antica presenza della de
Fonseca in quel luogo.
Ai tempi di Eleonora, nella casa ebbe luogo,
all'ingresso degli sposi e dei convitati, uno sfarzoso ricevimento offerto da
Don Pasquale ma in realtà frutto di un debito che sarà successivamente pagato
con la dote della malcapitata Eleonora, come si apprende dalle sue accorate
parole al processo di separazione. La casa è descritta da Striano come una
dimora dall'aria greve, arredata con pesanti mobili di gusto spagnolo e ornata
con decrepiti arazzi. Sempre Striano riferisce di una camera da letto rinnovata
per l'occasione, con tende bianche e sopratende gialline in cui troneggiava un
grande letto decorato con angioletti e fiori di smalto blu e con la corona
comitale. Unico vezzo, una toeletta rivestita di tulle. L'illuminazione, era
sicuramente affidata ad un lume a petrolio ed il riscaldamento ad un braciere:
non a caso, all'epoca, alzarsi dal letto in inverno rappresentava un vero
tormento.
Nessuna gioia riservò quella casa a Donna Lionora:
infatti, sin dai primi giorni di matrimonio, il marito si rivelò un brutto
ceffo, dedito al gioco, alle donne, allo sperpero. Quando la gioia di un figlio
sembrò consolare Eleonora che nell'occasione si scoprì madre dolcissima e
felice, il breve sogno fu interrotto da un'epidemia che a soli otto mesi, nel
giugno 1779, stroncò il piccolo Francesco che era nato il 31 ottobre 1778. I
libri tanto amati le furono di scarso conforto anche perché il rozzo marito
contrastava efficacemente ogni suo tentativo di studio, ritenendo quest'ultimo
fuorviante. Al processo di separazione non esiterà ad affermare che i libri che
la moglie leggeva l'avevano corrotta perché propugnavano le nuove idee
sovvertitrici condannate dalla Chiesa. Una nuova gravidanza avrebbe potuto
risollevare Eleonora ma come si apprende dalla sua stessa testimonianza, le
violenze continue non fecero andar a buon fine la maternità. Dal balcone,
infatti, la poveretta rischiò di fare un volo ‑ Ero gravida di cinque
mesi ma la sordidezza e la ferocia di lui non mi davano tregua: Ogni pretesto
era buono per darmi addosso. ‑ Un giorno cercavo un tomo imprestatomi e
conoscendo il suo odio per i libri gli dissi che forse lui lo aveva rivenduto e
doveva andarlo a cercare in qualche bancarozzo... Mi venne addosso e
sollevandomi per le braccia dal letto dove ero stesa, mi trascinò al balcone
vicino e minacciò di buttarmi giù. Tra indignazione, sorpresa e spavento
svenni... l'aborto fu immediato[*1].
Lo stato d'animo della poveretta giunge fino a noi
attraverso i suoi accorati versi inerenti la maternità mancata. La donna aveva
già scritto cinque bellissime poesie per il figlio morto e, dopo l'aborto,
trova la forza di riprendere a verseggiare per comporre un'ode dedicata al
Dottor Pean, che le salvò la vita prestando gratuitamente la sua opera. Nella
poesia si avverte il dolore per la mancata nascita ma anche la volontà di
tributare un onore all'uomo di scienza che l'aveva aiutata, uomo che lei da
Illuminata non poteva che ammirare.
Da: “Sonetti di Altidora
Esperetusa in nome del suo unico figlio” Napoli 1779
I
Figlio, tu regni in Cielo, io qui men
resto
Misera, afflitta, e di te orba e priva;
ma se tu regni, il mio gioire è questo,
tua vita è spenta e la mia speme è
viva.
Anzi la fede e cresce e si ravviva
E per essa al dolore la gioia innesto:
ché di viver fora al paragon molesto,
e tutti ottien chi al tuo morir arriva.
E parte di tua gloria in me discende,
che l'esser madre di uno spirto eletto
L'alma devota in caritate accende.
Ma il laccio di natura in caritate
accende.
Ma il laccio di natura in terra
èstretto.
Ah, se per morte ancora in Ciel si'
stende,
prega tu pace all'affannato petto!
Figlio, mio caro figlio, ahi! Loro è
questa
Ch'io soleva amorosa a te girarmi,
e dolcemente tu solevi mirarmi
a me chinando la vezzosa testa.
Del tuo ristoro indi ansiosa e presta
I' ti cibava, e tu parevi alzarmi
la tenerella mano, e i primi darmi
pegni d'amor: memoria al cor funesta.
Or chi lo starne della dolce vita
troncò, mio caro figlio, e la mia pace,
il mio ben, la mia gioia ha in te
fornita?
Oh di medica mano arte fallace!
Tu fosti male accorta in dargli aita,
di uccider, più che di sanar, capace.
Sola fra miei pensier sovente i' seggio
e gli occhi gravi lacrimar m'inchino,
quand'ecco, in mezzo al pianto, a me
vicino,
improvviso apparir il figlio i' veggio.
Egli scherza, io lo guato, e in lui
vagheggio
Gli usati vezzi e 'l volto alabastrino;
ma come certa son del suo destino,
non credo agli occhi, e palpito, ed
ondeggio.
Ed or la mano stendo, or la ritiro,
e accendersi e tremar mi sento il petto
finché il sangue agitato al cor
rifugge.
La dolce vision allor sen fugge;
e senza ch'abbia dell'error diletto,
la mia perdita vera ognor sospiro.
Da: “Ode elegiaca di Eleonora per un
aborto”
(…)
Già cinque volte Cintia
fuor dell'argenteo velo
il puro volto candido
spiegato avea nel cielo;
io troppo dolce e tenero
pegno nel seno avea,
onde recente perdita
ricompensar credea.
Giva il pensiero sollecito
tutto bramoso e vago
già del perduto figlio
piangendo in lui l'imago.
immaginar piaceami
in lui lo stesso sesso,
ed a chiamarlo usavami
col caro nome istesso.
…………………………
Ahi! La speranza amabile
parca crudel recise
e dentro il chiuso carcere
l'atteso frutto uccise.
…………………………
Morte, che vinta videsi,
stupì, arse di scorno,
e le nere ombre orribili
fiera mi sparse intorno.
Fredda sul core avventami
la man bagnata in Lete,
ed al commosso sangue
squarcia le vie segrete;
stende sul letto rapida
le membra irrigidite,
e sopra gli orli spingemi
della profonda Dite.
Un sol momento avvanzami;
ma, in quel momento, ardita,
la dotta man frapponesi,
e mi mantenne in vita;
la dotta man, ch'imperio
usa ad avere in Morte
da me la svelse e
chiusela nelle tartaree porte.