I  MARTIRI

DELLA  REPUBBLICA  PARTENOPEA

(1799)

FRANCESCO CARACCIOLO.

Era di casa illustre per antichi fatti, ma più risplendeva per le suo nobili opere, per le virtù di buon cittadino e della patria amatissimo, per la dottrina e per la esperienza delle faccende di mare, con le quali e coi marinai napoletani provati intrepidi in ogni cimento, in tempi men tristi, al dire dei coetanei, avrebbe avuto animo e ingegno atti a creare e a governare una potente marina. Se tristizia di tempi e di uomini gli impedì questa gloria, niuno poté impedire che la fama lo dicesse uno dei duci più valenti e intrepidi dell'età sua, e splendore dell'armata napoletana, e difensore magnanimo della libera patria.

Era nato ai 18 gennaio del 1752 a Mergellina, nella casa su cui ora si vede questa iscrizione postavi, pochianni or sono, da Mariano D'Ayala: Qui nacque Francesco Caracciolo ammiraglio strangolato nel 1799. Si diè al mare fin da fanciullo, e a 21 anno ebbe il primo comando; né i contrasti dei prepotenti insorti più volte ad attraversarlo poterono impedirglio di correre onestamente per la sua via. Nel 1779 andò in Inghilterra istruttore dei giovani ufficiali napoletani destinati a combattere la guerra d'America.

Reduce a Napoli nel 1781, fu tenente di vascello nel 1782, e capitano di fregata nell'anno dopo,. e lo vediamo successivamente sulle fregate Minerva, Pallade e Sirena combattere valorosamente i Barbareschi di Algeri e i Pirati del Mediterraneo; poi, divenuto capitano di vascello nel 1790, fare ardito prove sul Tancredi nella infelice impresa (1793) degli Inglesi, Spagnoli e Napoletani contro Tolone; e l'anno dopo con la flotta anglonapoletana nel mar di Savona combattere vittoriosamente il naviglio francese, e far prigioniero il Censore, vascello di Francia, e dagli Inglesi aver lode d'intrepidezza e sapere. Poscia contrariato dagl'invidi nel suo forte operare, costruì e armò navi mercantili a suo spese per alimentare la passione del mare e dei lunghi viaggi. Ai 10 gennaio 1798, elevato al primo grado di generale, s'imbarcò sul Sannita che doveva essere l'ultimo campo delle sue glorie, l'ultimo segno dell'altrui gelosia.

Con questo vascello accompagnò le navi che conducevano a Palermo il re fuggitivo e la Corte. Per via lo sorprese fiera tempesta. La nave che portava la regia fámiglia e che era comandata dal Nelson rimase sdrucita e corse pericolo gravissimo. All'incontro, quella governata dal Caracciolo, o fosse miglior senno o fortuna, procedeva sicura nella tempesta e pareva che comandasse alle furie dei venti. Il re dètte pubblica lode al valente ammiraglio e destò   l'invidia del Nelson che la lode altrui riputò rimprovero a sé.

Al malanimo dell'inglese si unirono anche le malevolenze e gli insulti dell'Acton, per cui il Caracciolo, mandato a disarmare il Sannila a Messina, chiese la sua dimissione e tornossene a Napoli, dove, poco appresso, fortemente pregato dai preposti alle cose di mare, dètte i suoi servigi alla patria; e, presa la direzione del ministero della marina e il comando delle forze navali, ai 5 aprile con un proclama mostrò ai cittadini gli scellerati nemici contro i quali bisognava combattere, e si mise risoluto e ardito alla difficile impresa.

La marina ora ridotta a miserissimi termini. Il re, nel partire per Sicilia, aveva dato ordine di bruciare le navi dell'arsenale e del porto, perché non andassero in mano ai Francesi. E due vascelli, tre fregate e centoventi barche cannoniere furono arse in cospetto della città mesta e costernata di quel tristo spettacolo. Erano campate dall'incendio solo alcune barche vecchie e in servibili. Il Caracciolo le riattò, le agguerrí, fabbricò nuovi legni, messe  in ordine piccol navilio per difendere la, Repubblica, e fece belle fazioni. Legni inglesi e siciliani si erano impadroniti delle isole d'Ischia e di Procida, donde bloccavano il porto e tentavano sbarcare sulle coste: e il Caracciolo mosse contro di essi, e fece prova di cacciarli e di riprender le isole. « Sciolsero dal Porto dì Napoli, » scrive Pietro Colletta « i Repubblicani lieti all'impresa benché tre contro dieci, e valorosamente combattendo un giorno intero, arrecarono molte morti e molti danni, molti danni e morti patirono; e più facevano, e stavano in punto di porre il piede nella terra di Procida, quando il vento che aveva soffiato contrario tutto il dì, infuriò nella sera, e costrinse le piccole navi della Repubblica a tornare in porto: non vincitrici, non vinte, riportanti lodi dell'audacia e dell'arte. »

Il Caracciolo fece tutto quello che consigliavano senno di guerra e amore - di libera patria. Adoperandosi con sagacità e con destrezza, tenne gl'Inglesi lontani dalla costa, sostenne il forte di Vigliena, dètte animo al generale Schipani, e difese i contorni di Napoli. Da ultimo poi, quando il Ruffo con le suo bande stringeva la infelice città, egli, tenendosi col piccol navilio quanto più poteva vicino  alla riva, bersagliava il nemico di fianco, mentre i Repubblicani usciti da Napoli lo assalivano di faccia sul ponte della Maddalena.

Ma tutto precipitava, e non eravi senno o virtú che potessero salvare dal furore dei barbari e dalla viltà crudele di iniquissimo re.

 Dopo la capitolazione, il Caracciolo, fidandosi ai giuramenti, si ritirò a Calvizzano, fendo dei suoi avi materni, poche miglia distante da Napoli. Ivi sentita violata la capitolazione, si nascose per aspettare tempo e occasione a fuggire il pericolo. Ma un domestico suo lo tradí, e fu consegnato ai carnefici. Il Nelson lo chiese al Ruffo, e si credé che a questa domanda lo movesse il desiderio di salutare un valoroso che più volte gli era stato compagno alla gloria nelle battaglie navali. E già si applaudiva al generoso pensiero che supponevasi in lui, quando apparve certo che l'inglese chiedeva il Caracciolo per isfogare la sua rabbia contro di esso, e per aggiungere questa viltà agli altri delitti. « Sul proprio vascello adunò una corte marziale di. ufficiali napoletani, e ne fece capo il. conto di Thurn perché primo in grado: la qual corte, udito le, accuse, quindi l'accusato (in discorso, perocché il processo scritto mancava) credé giusta l'inchiesta di esaminare i documenti e i testimoni della innocenza; di che avvisato lord Nelson scrisse non essere necessarie altre dimore. E allora quel senato di schiavi condannò l'infelice Caracciolo a perpetua prigionia; ma il Nelson, saputa dal presidente Thurn la sentenza, replicò: « La morte. " E morte fu scritto dove leggevasi prigionia. Si sciolsl l’infame concilio alle due ore dopo mezzodí ; e nel. punto stesso Francesco Caracciolo, patrizio. napoletano, ammiraglio di armata, dotto in arte, felice in guerra, chiaro per acquistate glorie, meritevole per servigi di sette lustri alla patria ed al re, cittadino egregio e modesto, tradito dal servo nelle domestiche pareti, tradito dal compagno d'armi lord Nelson, tradito dagli ufiziali suoi giudici, che tante volte aveva in guerra onorati, cinto di catene, menato sulla fregata napoletana La Minerva (rinomata ancor essa tra i navílii per le felici battaglie di lui); appiccato ad un'antenna, ai 24 giugno 1799, come pubblico malfattore, spirò la vita, e restò esposto, per chi a ludibrio, per chi a pietà, fino alla notte, quando, legando al cadavere un peso ai piedi, fu gettato nel mare. »

Incontrò la morte con animo tranquillissimo. Vincenzo Coco  narra che, quando gli fu comunicata la sentenza, passeggiava sul cassero ragionando della costruzione di un legno inglese che gli stava  vicino. Udito che bisognava morire, continuò il suo ragionamento, e al marinaro che doveva preparargli il capestro e che era commosso di profonda pietà, disse: « Sbrigati ; è, ben grazioso che, mentre io debbo morire, tu debba piangere. »

Dopo che il corpo fu gittato nel mare, il re che era nel porto « scoprì da lungi un viluppo che le onde spingevano verso il vascello, e, fissando in esso, vide un cadavere tutto di fianco fuor dell'acqua, ed a viso alzato, con chiome sparse e stillanti, andare a lui quasi minaccioso e veloce: quindi, meglio intendendo lo sguardo, conosciute le misere spoglie, il re disse: “ Caracciolo !”  E, volgendosi inorridito, chiese in confuso: “ Ma che vuol quel morto? " Al che, nell'universal sbalordimento e silenzio de' circostanti il cappellano, pietosamente, replicò: ' Direi che viene a domandare cristiana sepoltura." - « Se l'abbia," rispose il re, e andò solo e pensieroso alla sua stanza. »

Il cadavere fu raccolto dai marinari che tanto lo amavano, e, sepolto nella chiesa della Madonna della Catena, ebbe gli uffici supremi che furono solenni perché onorati dalle lacrime dei poveri abitanti di quella contrada, i quali, ora, sinceramente piangevano l'uomo stato sempre per essi pio benefattore e padre amoroso.

ATTO VANNUCCI

Firenze, a dì 20 agosto 1848.

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